ALESSANDRO ROBECCHI – Benvenuti profughi per le pensioni dei figli dei nostri figli

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Siccome non smette un attimo la furiosa gara alla rottamazione del Novecento – miti, ideologie, simboli, bandiere – per una volta si può davvero gioire per un oggetto che dimostra, finalmente, la sua poderosa inutilità. Prima dei peana per la signora Merkel e delle pive nel sacco di razzisti e xenofobi europei di fronte al sussulto umanitario, va notata una cosa: il filo spinato – scusate il francesismo – non serve a un cazzo.

Questa icona del Novecento, questa barriera per uomini considerati animali, questa difesa fisica che serve a non far scappare o a non far entrare, se ne va tra gli sberleffi di chi l’attraversa e la gioia di chi non la voleva costruire. A guardarla in timelapse, con le immagini accelerate, la recente vicenda ungherese sembra davvero un film di Ridolini: prima il grande sforzo di costruire barriere in acciaio uncinato, e poi, questione di minuti, il suo tsunamico superamento da parte delle moltitudini. Ecco fatto, i simboli contano, ma le azioni che li fanno a pezzi contano di più: un continente che ha festeggiato la caduta del muro di Berlino doveva già saperlo, ma insomma, repetita juvant.

Ora, naturalmente, saranno liberissimi i razzisti europei di aggrapparsi à la Salvini, a qualche fatto di sangue, a qualche disfunzione del sistema, con la patetica pretesa di combattere la Storia con la cronaca nera, ma sarà come svuotare il mare con un cucchiaio, auguri. Il fatto è che superando il concetto di filo spinato – se veramente si farà – l’Europa importerà il suo futuro. Ma sì, certo, ovvio, anni e anni di politica europea sconclusionata, litigiosa, dissociata e miope ci hanno insegnato che le frasi a effetto lasciano il tempo che trovano. Nessuno è straniero, benvenuti, restiamo umani, eccetera eccetera, sono belle parole che scaldano il cuore, ma poi la palla passa inevitabilmente ai fatti.

E i fatti dicono che domani, nel 2050, se si tenesse teso il filo spinato intorno alla fortezza, in Europa ci sarebbero due lavoratori per ogni pensionato: semplicemente impossibile da sostenere. E dunque, anche se ci piacciono molto gli attestati di umanità che ci attribuiamo e attribuiamo ai governi e leader improvvisamente illuminati, per una volta ci piacciono di più le analisi macroeconomiche. Qui, nella vecchia Europa, servono urgentemente almeno duecento milioni di lavoratori nel prossimo mezzo secolo. Una cifra che gli anziani e sazi europei non raggiungerebbero nemmeno mettendosi a figliare come conigli. E dunque le braccia e le teste e i cuori che passano il filo spinato ungherese, le onde del canale di Sicilia, le barriere tra Ceuta e Gibilterra, ci servono come il pane, o meglio, se è lecito il paradosso, ci servono per avere pane anche domani.

Mi rendo conto che gli studi dell’Ocse, le cifre di Bloomberg, le analisi degli economisti e dei ricercatori possano togliere poesia e letteratura alla retorica dell’accoglienza e forse darle una patina di cinismo. Ma meglio così: è risaputo che l’egoismo funziona più dei buoni sentimenti e dunque egoisti di tutta Europa unitevi, accogliete migranti e rifugiati se volete mantenere tra qualche decennio una parvenza di stato sociale, per voi e per loro. Per avere nei prossimi trent’anni duecento milioni di nuovi europei serviranno scuole, case, ospedali, servirà tutto e bisognerà costruirlo. E quindi insieme alle loro speranze e ai loro bambini, migranti e rifugiati ci portano pure l’unica cosa che serve davvero: un New Deal europeo per il ventunesimo secolo.

Alessandro Robecchi

(11 settembre 2015)

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