Un saluto a Federico Coen

08/07/2012

Saluto a Federico Coen

Bisogna arrivare alla pagina delle lettere del Corriere della Sera di oggi per venire a conoscenza dellamorte di Federico Coen. Ci informa, con parole affettuose e misurate, Bianca Maria Bruno, direttrice di Lettera Internazionale da tre anni, da quando cioè lo stesso Coen, messosi da parte per motivi di salute, le ha affidato la bella eredità della rivista da lui fondata, che per decenni ha osservato, grazie a un periscopio rivolto verso il mondo e proprio per questo capace di farci comprendere meglio il nostro paese, i cambiamenti dell’Europa; una rivista che per un lungo periodo è stata pensata e realizzata in più edizioni nazionali, a segnalare una riflessione che voleva abbracciare tutta intera la grande patria europea, nel sogno di una comunità di intellettuali che si misurava con la missione di preparare il terreno su cui sarebbe cresciuta una comune identità. 


Federico Coen era stato il direttore del mensile socialista 
Mondo operaio (fondato a metà degli anni cinquanta dello scorso secolo da Pietro Nenni) nel periodo migliore: quello in cui il periodico aveva contribuito a rilanciare l’autonoma cultura del socialismo riformista italiano ingaggiando una dura competizione culturale con la ancora granitica intellighenzia comunista, e riuscendo ad anticipare temi e problemi (come la teoria socialista dello stato, proposta in un basilare saggio di Norberto Bobbio) che sarebbero diventati, più avanti, “luoghi comuni” della sinistra e contenuto, per una deriva che Coen avrebbe contrastato pagando pena con l’estromissione dalla direzione del giornale, di una battaglia politica agitata da Craxi in una prospettiva che, dall’originaria ipotesi di una sinistra liberata dai blocchi mentali e dalle ottusità ideologiche del passato e rinnovatrice del paese, sarebbe franata (con i danni che tuttora scontiamo) nel meta-pentapartito degli anni ottanta, nella vergogna di tangentopoli, nell’amara diaspora socialista, nella crisi irrisolta della politica. 

La foto che accompagna la lettera testimonianza di Bianca Maria Bruno coglie Federico Coen sulla tribuna di un congresso o convegno della Cgil: Coen, infatti, dopo aver lasciato Mondo Operaio, era diventato direttore del mensile Thema, voluto da Luciano Lama e Ottaviano Del Turco a metà degli anni ottanta, quando i due leader della CGIL avevano maturato la convinzione di dover aprireun luogo in cui socialisti e comunisti potessero confrontarsi nell’ottica di costruire una strategia unitaria della sinistra, resa difficile dallo scontro politico quotidiano ma che, forse (tale era almeno l’auspicio), avrebbe potuto trovare le sue ragioni allungando lo sguardo, andando al di là dello stretto confine delle questioni di governabilità e del tatticismo delle convenienze dell’irrisolto duello a sinistra (come sintetizzarono Giuliano Amato e Luciano Cafagna, anche loro del gruppo di Mondo operaio che si era avvicinato alla Cgil). 

Della redazione di Thema feci parte, con altri colleghi con i quali ho condiviso anche fasi successive della mia carriera professionale: Enrico Galantini, Carlo Gnetti, Anna Avitabile; insieme con noi c’era Marco D’Eramo, l’autore del progetto grafico era Francesco Alfani, tra gli illustratori ricordo Mojmir Jezek, Riccardo Paoletti, Roberto Perini, tanti erano i collaboratori attirati dal prestigio di Coen (tra loro, alcuni esuli dell’est europeo, come Wlodek Goldkorn) che non esitò ad accettare l’idea, che gli venne proposta, di lasciare l’apertura della rivista a un “prologo” affidato a uno scrittore che – ripescando l’esempio del famoso apologo sulla “gran bonaccia delle Antille” con cui Italo Calvino, trenta anni prima su Città aperta, aveva dimostrato quanta energia politica potesse sprigionarsi da un testo letterario – scommetteva sulla possibilità di offrire altre parole al discorso politico, per provare se con quell’ottica si potesse rinnovarlo, sottoponendogli un altro punto di vista e purificandolo così dal corrompimento retorico che ormai lo allontanava dalla realtà. 

Thema
 fu un clamoroso fallimento; non seppe conquistare il mercato esterno delle edicole (il primo numero, del febbraio 1986, vendette appena tremila copie che si ridussero drasticamente già con il numero successivo) né seppe tenere il mercato degli abbonati interni. A suo favore non giocò nemmeno la conclusione della segreteria Lama e, soprattutto, l’aver affrontato con piglio argomenti che si scoprirono in quell’occasione ancora tabu per molti: l’ultimo numero (e forse non fu un caso) pubblicò in copertina una bella illustrazione di Perini in cui lo scarpone militare di un gigante schiaccia un omino in fuga con le mani avvinghiate all’asta di una bandiera rossa su una strada sul cui sfondo si scorgono le sagome di due carri armati: era l’ottobre del 1986 e il titolo della pagina diceva: “Budapest 1956. Una ferita che brucia ancora”.Coen, presentando il servizio, scriveva: “Il futuro dei paesi dell’est è un’incognita per il futuro dell’Europa intera e per la stessa pace mondiale. Non c’è stabilità politica, non c’è sicurezza, non c’è cooperazione economica che possa mettere radici veramente solide sulla base della sovranità limitata di una parte così importante dei popoli di questo continente. Per questo le formule diplomatiche o le faticate riabilitazioni postume non bastano a esorcizzare il 1956. Bisogna raccoglierne l’eredità politica”. Non tutti gradirono. A Coen, alle sue testimonianze di socialista partigiano delle libertà senza se e senza ma, è capitato spesso. Un saluto da tutti noi della redazione di Thema. 

 

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Di Tarcisio Tarquini il 08/07/2012 alle 17:56

 
 

 

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