Roberto Bolle: «La danza ci insegna il rispetto per l’altro»

Roberto Bolle: «La danza ci insegna il rispetto per l’altro»

Elena Nieddu

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Genova – La vera, profonda, lezione della danza al mondo è l’umiltà. L’insegnamento è il rispetto. La scuola di vita è l’attenzione, i sensi protesi nell’ascolto dell’altro. È importante sentirlo dire in questi giorni di buio. È affascinante ascoltare queste parole da un’étoile come Roberto Bolle: un nome associato all’idea stessa della danza e diventato il nome stesso della bellezza.

Il danzatore sarà a Genova per la doppia serata “Roberto Bolle and Friends”: due appuntamenti, sabato 15 e domenica 16, al teatro Carlo Felice, in cui proporrà un gala fatto del meglio della danza di tutto il mondo, con coreografie e artisti scelti per consentire al pubblico di viaggiare nel tempo, nella poesia e nei corpi.

Bolle, l’equilibrio fra classico e contemporaneo è il principio su cui costruisce i suoi spettacoli?

«L’idea è quella di rendere il gala interessante e fruibile da un pubblico vario: c’è chi ama di più il classico, chi si esalta per le cose nuove, mai portate in Italia. Sul palco, comunque, ci saranno i migliori. E una tecnologia all’avanguardia: in questo spettacolo abbiamo fatto un grande passo in avanti, grazie all’uso del led wall che consente una risoluzione più alta e una resa più realistica».

In “Prototype”, la coreografia che apre il gala, interagisce con i suoi doppi virtuali. Cosa “arriva” in più al pubblico, con l’utilizzo di questi strumenti?

«I movimenti del corpo sono amplificati dall’immagine sul led wall. In “Prototype” arrivo e danzo con i miei cloni, creo scie luminose…Questo si può fare solo con la tecnologia: si entra in una realtà dove tutto è possibile e tutto è reale».

Ha danzato negli spazi più affascinanti del mondo, dal Colosseo alla Valle dei Templi, al Giardino di Boboli. Cosa sente un artista quando entra in contatto con questi luoghi?

«È l’esaltazione dell’arte. Ti senti parte di qualcosa che è più grande di noi. L’arte è un dono divino, come lo è il talento. Sul palco lo sentiamo in modo molto forte: è una bellezza visiva completa, che spazia nei secoli, esiste da migliaia di anni, mentre il gesto artistico ha inizio e fine».

Dal 1999 lei è ambasciatore di buona volontà per l’Unicef. Cosa l’ha spinta ad appoggiare le iniziative dell’organizzazione?

«Inizialmente, è stato per caso: sono stato coinvolto in diversi progetti da alcuni amici. Avevo 24 anni: ho capito subito l’importanza di fare qualcosa per gli altri. È stato un momento di crescita: i viaggi (nel sud del Sudan e in Repubblica Centrafricana, ndr) mi hanno cambiato».

Ricorda, di quei viaggi, un momento in particolare?

«Sì. Ho conosciuto un bambino soldato. L’ho incontrato in un luogo protetto, era stato liberato da pochi giorni. Ho ascoltato la sua storia. Nonostante tutto, aveva delle speranze per il futuro: voleva diventare medico, aiutare gli altri. Mi ha commosso».

Viviamo giorni difficili, segnati da intolleranza e razzismi. La danza può insegnare qualcosa ai nostri tempi?

«La danza è una grande scuola di vita, insegna la disciplina e il rispetto: ogni danzatore è importante. Per andare in scena, bisogna saper rispettare e ascoltare gli altri. Insegna il sacrificio e l’umiltà. Ogni giorno ci si ritrova tutti insieme, dalle étoile ai ballerini, davanti a un maestro. Tutti abbiamo bisogno di insegnamenti».

Per Dominique Dupuy, decano della contemporanea, danzare è essere guardati.

«Non per me. Almeno, questa non è stata la molla. Io ho sentito il bisogno di esprimere delle emozioni: da bambino ballavo sempre, davanti alla tv, a casa… Al contrario, spesso sono in difficoltà, se mi sento troppo guardato, soprattutto in sala prove, dove i colleghi hanno gli occhi puntati su di me».

Le pesa essere al centro dell’attenzione?

«Non è sempre facile. Sono contento di stare per un po’ all’estero: negli Stati Uniti, ad esempio, non sento la pressione del pubblico. Tuttavia, adoro essere amato, fa parte di me, ed è una grande responsabilità. Ma è importante poter vivere questi due momenti, anche poter camminare per strada e non essere un personaggio».

Quando si sente realizzato?

«Quando avverto la sintonia con il pubblico, sento di averlo coinvolto in un percorso. È una sensazione molto chiara; e il più delle volte accade».

In cosa è cambiato?

«Negli anni ho imparato ad essere meno rigido con me stesso. Prima, badavo a ogni minimo errore tecnico. Ora, penso anche a godermi il momento, il lato emotivo: è questione di consapevolezza».

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