Enzo Ceremigna – Art.18, facciamola finita con i difensori di totem e tabù

Lo Statuto figlio del pragmatismo socialista nacque senza i voti di PCI e PSIUP

Enzo Ceremigna – Art.18, facciamola finita con i difensori di totem e tabù

da Avantidelladomenica

martedì 2 ottobre 2012

Enzo Ceremigna

La frase di Mario Monti circa le rigidità dello Statuto dei lavoratori – che avrebbero nuociuto ad un maggiore dinamismo del mercato del lavoro – ha suscitato un vespaio di reazioni polemiche e, soprattutto a sinistra, tante indignate vestali si sono affrettate a scagliare contro quella frase i più pesanti anatemi.
Come sempre, materia dello scontro non è l’insieme della normativa statutaria, bensì quell’art. 18 dello Statuto, ormai divenuto – in senso favorevole o contrario – un autentico feticcio, una sorta di invalicabile Rubicone dei tempi nostri.
Per noi socialisti, a 42 anni di distanza dall’approvazione della “Legge Brodolini”, si pone un primo imperativo: non partecipare alla gara tra totem e tabù, impedire che una discussione doverosa e ad ampio raggio sui problemi del lavoro in una situazione così delicata e complessa come quella della crisi italiana – e sulle modalità di uscirne con credibili strategie di sviluppo – venga ingessata da veti, da ribellismi ideologici o da insopprimibili urgenze referendarie. Oltretutto sbandierate proprio da forze politiche che, a suo tempo, lo Statuto non l’hanno votato…
Se un aspetto positivo può, infatti, derivare da una scadenza referendaria – comunque da calendarizzare dopo l’effettuazione delle elezioni politiche – è che essa ci costringerà ad affrontare la “questione lavoro” mettendo in campo idee e proposte tali da mettere ciascuna forza politica maggiormente in sintonia con il paese reale.
Noi sentiamo il dovere di recuperare lo spirito autentico che portò i socialisti ad ingaggiare – nel centrosinistra della fine degli anni ’60 – la battaglia per conquistare uno “Statuto dei lavoratori”. La formula, che poi risultò vincente, non fu viziata da alcun furore ideologico: è stata, al contrario, la vittoria del pragmatismo.
Si è lavorato esaminando con cura il mondo del lavoro (e dei diritti fino ad allora negati) così come era e come prevedibilmente si sarebbe evoluto nel tempo, con un’attenzione particolare a quello che allora era il centro-motore di tutta l’economia: l’industria, la fabbrica, il sistema fordista dell’organizzazione del lavoro, gli operai, il sindacato. Il tutto senza rendersi prigionieri di nessun dogmatismo, bensì con un’aderenza quasi maniacale al tipo di realtà da modificare nel profondo, appunto avvalendosi della tipica metodologia riformista: il pragmatismo.
Ecco perché, a 42 anni di distanza, anni nei quali si è potuto giustamente affermare che “sono avvenuti mutamenti più veloci, incisivi e pervasivi dei quasi duemila anni precedenti” non risulta convincente la posizione di chi considera che tutto – nello Statuto – sia intoccabile. 
Siamo confrontati con un mercato del lavoro che presenta mille sfaccettature, mille peculiarità, mille “precarietà”. Le leggi che governano il lavoro e soprattutto quelle che presiedono al welfare – e ne costituiscono il naturale compendio – hanno un’urgente necessità di essere attualizzate, modernizzate, rese fruibili veramente dall’intero mondo del lavoro. La piaga crescente della precarietà consiglia, anzi, di puntare decisamente il timone verso nuovi indici di protezione e tutela, che a buon titolo possono essere annoverati nella sfera dei “nuovi diritti” per lavoratrici e lavoratori.
Serve un nuovo welfare, costruito sui bisogni che qui e ora si vengono a determinare nei moderni processi produttivi e lavorativi. Ed è un compito impegnativo, un traguardo che vede proiettate in una seria battaglia politica e ideale tutte le forze progressiste in Europa, socialisti, socialdemocratici e laburisti in prima fila. Nessuno può negare quanto un obiettivo così ambizioso presenti complessità, difficoltà, e quanto – in sé – possa suscitare tra le forze conservatrici resistenze, opposizioni, contromanovre pesanti.
Se questo è – come è – il campo largo nel quale affrontare la “questione lavoro” può il tutto essere ricondotto ad un estenuante braccio di ferro sul solo articolo 18? Può una questione di così ampie e decisive ripercussioni sulla vita dei singoli e della collettività essere costretta in un pur comprensibile quesito referendario? Se il nostro intento sarà quello di riappropriarci dello “spirito degli anni ‘70” la risposta a questo interrogativo è già scritta.

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