Senkaku: lo “scoglio” tra Cina e Giappone che può portare alla guerra

da panorama.it

L’arcipelago disabitato è ricco di gas. Il Giappone lo ha comprato da un privato, scatenando la violenza dei nazionalisti cinesi

Senkaku, in giapponese. Diaoyu, in cinese. Un arcipelago nel Mar Cinese Orientale di cinque isole e tre scogli, disabitato ma ricco di gas, controllato dal Giappone. Presenza umana limitata al 1900-1940, il tempo che riuscì a durare uno stabilimento per la lavorazione del tonnetto striato impiantato da un certo Koga Tatsushiro, imprenditore giapponese, con 200 lavoratori. Questo il nodo (lo scoglio) del contendere nelle relazioni improvvisamente divenute burrascose tra Tokyo e Pechino. Un’ondata di manifestazioni in 85 città cinesi in pochi giorni contro la decisione del governo nipponico di acquistare tre delle isole da una famiglia giapponese che ne detiene i diritti di sfruttamento.

Una crisi che non accenna a scemare. Sospendono la produzione, uno dopo l’altro, gli stabilimenti delle multinazionali giapponesi in territorio cinese, per precauzione contro le proteste. Folle inferocite lanciano pietre e uova contro l’Ambasciata nipponica a Pechino, devastano o danno alle fiamme ristoranti e centri commerciali, concessionari e rivenditori del Sol Levante, e aggrediscono cittadini giapponesi.

Il governo di Tokyo chiede a quello di Pechino di garantire la protezione dei propri beni e cittadini. Le autorità cinesi per un verso cavalcano i sentimenti nazionalistici, dall’altro temono che nei cortei si infiltrino (sta già succedendo) i dissidenti anti-governativi proprio alla vigilia del 18° Congresso del Partito Comunista che dovrebbe sancire in ottobre il subentro alla guida del gigante asiatico di Xi Jinping a Hu Jintao. E ancora: centinaia di pescherecci cinesi salpano alla volta delle Senkaku, la Marina nipponica è in allerta e il segretario di Stato americano alla Difesa Leon Panetta chiede a entrambe le parti “calma e moderazione” mettendo in guardia contro il rischio reale di un conflitto.

La tensione monta in vista di una ricorrenza, il 18 settembre, che più (o meno) a proposito non poteva cadere: i 79 anni dall’Incidente di Mukden (in giapponese), di Liutiaogu in cinese, quando un attentato a una ferrovia giapponese nella Manciuria meridionale vicino all’attuale Shenyang servì da pretesto al Giappone per invadere e annettere la Manciuria all’Impero.  

Le Senkaku/Diaoyu, rivendicate pure da Taiwan, hanno un interesse geo-politico, economico e militare (fanno parte della prefettura di Okinawa e là opera la Marina degli Stati Uniti: proprio in questi giorni Washington sta faticando a ottenere l’autorizzazione a trasferirvi un corpo di marines con aerei a decollo verticale).

Lo scontro diplomatico è stato innescato da episodi marginali, come quasi sempre avviene, capaci però di produrre effetti a catena. È il sassolino che genera la valanga. Fino allo scontro tra giganti la cui rivalità ha segnato e attraversato nei secoli la storia asiatica.

È bastato il recente sbarco sull’arcipelago di gruppi di nazionalisti, prima cinesi e poi giapponesi, che hanno piantato le rispettive bandiere nazionali, per scatenare le pubbliche opinioni scioviniste. In piazza i cinesi hanno portato poster di Mao, urlando che lui avrebbe già provveduto a “sistemare quei cani giapponesi”, inviando navi da guerra. Ma le autorità di Pechino restano prudenti.

Anche se la stampa cinese invoca sanzioni economiche, e in un caso addirittura le bombe atomiche per “vetrificare” Tokyo, i vertici del Partito sanno che in piazza, accanto agli striscioni anti-giapponesi sono apparsi slogan della dissidenza, rappresentata fra gli altri da Ai Weiwei, artista che sarcasticamente ringrazia il governo giapponese per aver fornito un motivo per il ritorno dei cinesi in piazza. Il 18 settembre, il giorno della verità. La ricorrenza storica dell’incidente della Manciuria può catalizzare la protesta. Incombe il rischio di un nuovo “incidente”. Con conseguenze imprevedibili.

Quantomeno, il Giappone rischia ritorsioni economiche che colpirebbero l’economia già provata dal “decennio perduto” degli anni ’90 (la Cina è primo partner commerciale di Tokyo mentre il Giappone è terzo per Pechino, dopo Stati Uniti e Unione Europea). Un rebus dalla soluzione impossibile e dalle implicazioni potenzialmente disastrose.  

 

Aggiungi ai preferiti : Permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *