Il cambiamento climatico è all’origine delle migrazioni. Ma la politica nega l’allarme

SOS TERRA

«Con la consueta miopia, amministratori e leader cercano di ritardare azioni urgenti. Per questo come scienziati abbiamo il dovere di farci sentire con maggior forza». Parola dell’epidemiologo Paolo Vineis

DI FRANCESCA SIRONI 10 gennaio 2019 da espressorepubblica.it

«Il cambiamento climatico è all'origine delle migrazioni. Ma la politica nega l'allarme»

Fra le righe di accordi, norme, e programmi sul clima, bisognerebbe ricordarsi sempre di legare ogni parola, ogni non-azione, ogni tentativo di rimandare gli interventi necessari, alle conseguenze che la crisi ha. Non solo sul pianeta. Ma sulla salute stessa degli uomini. Studiare l’impatto del cambiamento climatico sulle persone, approfondire la relazione fra ambiente, Dna, e benessere, è il principale mestiere di Paolo Vineis, epidemiologo, professore all’Imperial College di Londra e una delle voci internazionalmente più autorevoli sul tema. Autore, fra le altre cose, di “Salute senza confini, le epidemie al tempo della globalizzazione”, sta coordinando “Lifepath”, un grande progetto di ricerca finanziato dall’Unione europea sulla relazione fra condizioni economiche e aspettative di una vita sana. Uno degli ultimi risultati, pubblicati su Lancet, porta in primo piano, ad esempio, il rapporto fra il crescere in quartieri svantaggiati e il rischio di sviluppare il diabete fin da bambini. Insieme a Roberto Cingolani, direttore scientifico dell’Istituto italiano di Tecnologia di Genova, e Luca Carra, sta preparando invece un nuovo libro sulle domande che è necessario porci per prevenire il degrado ambientale, e le malattie connesse.

Come guarda a Katowice professore?
«Con preoccupazione. Come ho scritto in un intervento pubblicato su “Scienzainrete” poco fa, il miglior alleato del cambiamento climatico in questo momento è il populismo. È da 30 anni che il mondo scientifico è compatto nel mostrare effetti e cause del cambiamento climatico. Dal fronte della scienza quindi non ci sono più dubbi: i segnali sono allarmanti, punto. Eppure la politica continua a titubare, a prendere tempo. Con la consueta miopia, amministratori e leader cercano di negare, ridurre, ritardare azioni ormai onerose e urgenti. Per questo come scienziati abbiamo il dovere di farci sentire con ancora maggior forza».

Da quanto tempo si occupa di questo?
«Ricordo perfettamente la prima volta in cui ascoltai Anthony Mc Michael, un gigante dell’epidemiologia mondiale. Eravamo a un convegno a Firenze, 20 anni fa. Presentava studi pionieristici sulla relazione fra salute e cambiamento climatico. All’epoca era considerata una questione di nicchia. Ora è un settore fondamentale di ricerca, a cui ci siamo dedicati, anche insieme, negli anni successivi».

Una delle sue pubblicazioni più note riguarda il rapporto fra innalzamento del livello del mare e ipertensione in Bangladesh. Di che si tratta?
«Tutto nasce da una mia studentessa del Bangladesh, rimasta poi all’Imperial College dopo il dottorato. Portò dei dati sull’eccesso di ricoveri per eclampsia, una malattia dovuta all’ipertensione, fra le donne incinte in una zona costiera del Paese. Decidemmo di approfondire, e in collaborazione con l’università locale e una grande istituzioni di ricerca di Dhaka dimostrammo che il problema era molto più ampio. Per l’innalzamento del livello del mare e la contemporanea riduzione dell’afflusso dai fiumi, la concentrazione di sale nell’acqua dolce è aumentata notevolmente. Una delle conseguenze sono i problemi di ipertensione nei residenti, per i quali si tratta dell’unica acqua potabile a disposizione».

È un collegamento diretto fra cambiamento climatico e malattia.
«Sì. Anche se si lega a un altro tema chiave, da considerare sempre quando si parla di cambiamento climatico: l’accesso alle risorse. Paesi come l’Olanda si difendono dallo stesso rischio (che l’acqua marina infiltri le riserve idriche) attraverso misure di contenimento. Israele ha messo in campo importanti impianti di desalinizzazione. Sono tecnologie efficaci, certo, ma costose. Che il Bangladesh non può certo permettersi. E non dobbiamo dimenticare un’altra conseguenza finale di questo processo. Le malattie, la fame, le sofferenze che in un paese il cambiamento climatico causa in un paese come il Bangladesh sono all’origine dell’emigrazione di massa. Così come avviene in molte altre parti del mondo, dove il riscaldamento globale, senza le tecnologie “dei ricchi”, fa sentire con più forza i propri effetti, portando alle migrazioni».

Quali altre conseguenze vanno citate?
«Parlando di salute, ci sono effetti diretti come quelli delle alluvioni: che causano morti, feriti, distruzione. A loro volta, le devastazioni di impianti per le alluvioni portano a effetti secondari come l’inquinamento dell’acqua. Poi ci sono tutte le conseguenze indirette della crisi climatica. Penso agli effetti delle siccità sulla produzione e la qualità degli alimenti. Oppure alle malattie infettive e parassitarie, che espandono il proprio territorio per il cambio di habitat dei vettori. Basti pensare alla malaria, ad esempio, che ora si è estesa anche all’altopiano etiope. O alla nuova diffusione della dengue. Queste alterazioni sono poi esacerbate, chiaramente, dall’abuso del territorio e dall’inquinamento atmosferico. Mc Michael parlava a riguardo, giustamente, di “sovraccarico del pianeta”».

Inquinamento, ambiente, salute. Lei è una delle voci note di un ramo scientifico relativamente nuovo che correla questi elementi, l’epigenetica. Ci spiega?
«Fino a qualche anno fa si dava grande enfasi al genoma, cioè alla sequenza delle basi del Dna, per trovare la chiave di malattie croniche come i tumori. Malattie dovute però nel 90 per cento a fattori non ereditari. Negli ultimi anni la separazione si è attenuata, e si studiano le interazioni tra ambiente e Dna. L’epigenetica ha a che fare proprio con questo: come l’ambiente lasci le sue tracce sul Dna. Provo a fare un esempio: i geni, per esprimersi, utilizzano i gruppi metilici. Un eccesso di questi gruppi reprime l’espressione di uno specifico gene; una carenza invece lo favorisce. Ricerche sul fumo di sigaretta hanno dimostrato che fumare riduce i gruppi metilici del gene Ahrr, cruciale nel regolare il rapporto fra interno della cellula e esterno. La ridotta metilazione del gene causa a sua volta una cascata di eventi cellulari a valle, che può essere recuperata nel tempo (può essere reversibile) ma può anche contribuire all’insorgenza di un tumore del polmone. Un nostro studio ha misurato invece l’impatto della classe sociale sulla metilazione di una serie di altri geni, coinvolti nella reazione allo stress. La nostra salute, il nostro Dna, sono condizionati dall’ambiente. Non solo quello naturale, ma anche quello sociale.

© Riproduzione riservata10 gennaio 2019

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