I 12 professori che 85 anni fa rifiutarono il giuramento fascista

Sulla Gazzetta Ufficiale del 28 agosto del 1931 apparve il regio decreto n. 1227 che all’articolo 18 obbligava i docenti universitari a giurare devozione «alla Patria e al Regime Fascista». Su 1225 professori solo 12 rifiutarono il giuramento pur sapendo di dover subire, quale inevitabile conseguenza, il licenziamento.
da fanpage 28 AGOSTO 2016 13:01 di Marcello Ravveduto

Nella vulgata nazionale sono molti i passaggi storici del fascismo noti al grande pubblico: dalla marcia su Roma, all’assassinio di Matteotti e dei fratelli Rosselli, dalla guerra d’Etiopia alle leggi razziali, dall’alleanza con Hitler alla caduta del regime, dalla Repubblica di Salò alla fucilazione di Mussolini, con l’esposizione del cadavere a Piazzale Loreto.

Non da tutti, invece, è conosciuta una vicenda minore (paragonata ai maggiori misfatti) accaduta 85 anni fa. Sulla Gazzetta Ufficiale del 28 agosto del 1931 è pubblicato il regio decreto n. 1227. Il dispositivo è stato voluto dal ministro per l’Educazione nazionale, Balbino Giuliano, ispirato dal filosofo Giovanni Gentile, a cui il dittatore ha affidato il compito di edificare le fondamenta culturali del fascismo. In apparenza è “solo” uno dei tanti provvedimenti del regime fascista che vuole imporre nuove regole di controllo all’ordinamento universitario. Ma se leggiamo l’articolo 18 ci rendiamo conto che si tratta di un vero e proprio attacco all’autonomia dell’accademia:

«I professori di ruolo e i professori incaricati nei Regi istituti d’istruzione superiore sono tenuti a prestare giuramento secondo la formula seguente: Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l’ufficio di insegnante e adempire tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime Fascista. Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti, la cui attività non si concilii coi doveri del mio ufficio».

S’impone a tutti i docenti un giuramento di fedeltà al fascismo. In precedenza esisteva un giuramento di fedeltà al re e allo Statuto, mai rifiutato dai professori, salvo che nella Roma del 1870, in polemica con la conquista da parte dei Savoia. Già nel 1925, agli esordi della dittatura, c’era stato uno scontro tra fascisti e antifascisti in merito all’autonomia delle Università. Il 21 aprile (nel giorno del compleanno di Roma) Giovanni Gentile, su esplicita richiesta di Mussolini, si fa promotore di un manifesto degli intellettuali organici in cui si afferma la volontà di superare tramite il fascismo – che si presenta come azione, ma anche come «atteggiamento spirituale» – l’idea di un’Italia decadente, dal dilagante individualismo e dalla vita pubblica asservita al “particulare”. Duecentocinquanta sono i sottoscrittori del manifesto fascista.
La risposta degli intellettuali antifascisti è immediata: il 1˚ maggio su “Il Mondo”, Benedetto Croce pubblica il suo “Manifesto”, in sintonia con le più importanti voci della cultura europea, esprimendo preoccupazione e sdegno verso chi tradisce l’autonomia della cultura e «pretenderebbe piegare l’intellettualità a funzioni di instrumentum regni». Il gruppo dei firmatari dell’appello crociano sarà molto ampio e, come riconosce la stessa stampa fascista, ben più autorevole di quello avversario. Ma soprattutto, gli atenei di tutta Italia sottoscriveranno compatti la protesta.

Dopo sei anni, con l’avanzare della fascistizzazione dello Stato e del conformismo sociale e civile, la situazione è completamente mutata. Quando nell’ottobre dello stesso anno i docenti saranno chiamati a rispettare la cogenza del giuramento non vi sarà nessun moto di indignazione: solo 12 professori su 1225 rifiutano l’atto di sottomissione al regime (in realtà qualcuno ne conta 16 o 17). Chi erano questi coraggiosi scienziati? Francesco Ruffini, Mario Carrara, Lionello Venturi, Gaetano De Sanctis, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Ernesto Buonaiuti, Giorgio Errera, Vito Volterra, Giorgio Levi della Vida, Edoardo Ruffini Avondo, Fabio Luzzatto.

«Ho un’invincibile ripugnanza per il bel gesto! (…) Se potessi scivolare via con un qualsiasi pretesto, la cosa mi sarebbe assai più facile». Così scrive Edoardo Ruffini, il più giovane tra i professori che respingono il giuramento, nel momento in cui prende la drammatica decisione. Nessuno di loro è un pericoloso sovversivo, né hanno la stessa estrazione sociale, fede o cultura: gli altoborghesi si mescolano ai figli di commercianti, gli ebrei agli anticlericali e ai cattolici devoti, i repubblicani ai monarchici. Sono nient’altro che uomini dal radicato civismo, dalla forte moralità e dotati certamente, questo sì, di un’indole ribelle e poco incline al conformismo imperante. A cominciare da Gaetano De Sanctis che – come il padre ufficiale papalino renitente a dichiararsi fedele a una Roma ormai capitale d’Italia – ritiene il giuramento una menomazione della sua libertà interiore. O come l’anziano Bartolo Nigrisoli, che all’età di 73 anni non si scompone all’idea di essere allontanato dalla cattedra di chirurgia: «Giuramento simile io non mi sento di farlo e non lo faccio», esclamerà in piena coscienza.

Eroica è la figura di Mario Carrara, assistente e genero di Cesare Lombroso (di cui eredita la cattedra di antropologia criminale), che con imperturbabile purezza intellettuale scrive al ministro: «Abituato all’attribuire al giuramento la serietà dovuta, non ho sentito di potermi impegnare a dare intonazione, orientamento, finalità politiche alla mia attività didattica». Il rifiuto di aderire all’articolo 18 del regio decreto è il primo manifestarsi di un crescente sentimento antifascista che in seguito lo porterà in carcere. Il prestigioso docente festeggerà il suo settantesimo compleanno nel carcere “Nuove” di Torino dove per tanti anni i detenuti lo hanno visto impegnato nella sua attività scientifica.

Nei giorni successivi la propaganda fascista commenta beffarda il gesto di diniego. “Il popolo toscano”: «Undici su milleduecentoventicinque. Fa ridere! Sinceramente vorremmo che fossero altrettanti i malati in confronto ai sani, i rachitici a paragone con i fisicamente robusti, i deficienti con gli intelligenti, i disonesti di fronte ai virtuosi…». “Il Bargello”: «Fuori dalle nostre Università, fuori dai nostri laboratori, fuori dall’Insegnamento Italiano, fuori, fuori!». “Il Popolo di Lombardia”: «Confidiamo nell’erompente fede fascista dei gruppi universitari. È fatale che i giovani, nel campo della passione politica, siano all’avanguardia e insegnino moltissime volte la strada agli anziani».

La conseguenza per tutti è l’allontanamento dalla cattedra universitaria. Alcuni vanno all’estero, altri rimangono e saranno reintegrati dopo la caduta del fascismo. Se volessimo trovare un minimo comune denominatore tra i 12 ribelli dovremmo notare che 9 su 12 sono di origine piemontese e hanno vissuto o insegnato all’Università di Torino. Hanno invece origine ebrea (o vivono in ambiente di cultura ebraica) 5 dei 12. Le discipline interessate sono: Diritto (Ruffini padre e figlio, Luzzatto); Storia del cristianesimo e antica (Buonaiuti, De Sanctis); Filosofia (Martinetti); Storia dell’arte (Venturi); Orientalistica (Levi della Vida); Medicina (Carrara, Nigrisoli); Chimica (Errera); Matematica (Volterra).

Gaetano Salvemini, che dopo l’arresto nel ’25 lascia l’Italia rinunciando alla cattedra di Storia moderna all’Università di Firenze con una lettera molto dura nei confronti del Rettore («la dittatura fascista ha soppresso … quelle condizioni di libertà, mancando le quali l’insegnamento universitario della Storia … perde ogni dignità perché deve cessare di essere strumento di libera educazione civile e ridursi a servile adulazione del partito dominante …»), rimarrà molto deluso sia della scarsa adesione al rifiuto, sia della modesta reazione internazionale, sia del fatto che fra i 12 non ci sono professori di Storia contemporanea o di Italiano, e nemmeno socialisti. Eppure, come tanti altri faranno, anche lui cercherà di giustificare quelli che hanno piegato il capo.

Del resto sulla questione del giuramento si apre immediatamente un dibattito contrastante che coinvolge professori, intellettuali e politici. Per esempio, pur da posizioni antifasciste distanti fra loro, Croce e Togliatti esprimono la stessa opinione: i professori devono giurare per non lasciare le Università in mano ai fascisti. L’orientamento espresso dal capo del comunismo italiano e dal massimo esponente del liberalismo spinge molti docenti non fascisti o apertamente antifascisti ad accettare l’esercizio di sottomissione. Concetto Marchesi (Letteratura latina all’Università di Padova), militante comunista, dopo una prima decisione negativa, pubblicamente annunciata, accetta con dolore (e vergogna) di giurare, seguendo l’indicazione di Togliatti. Piero Calamandrei (Diritto all’Università di Firenze) e Luigi Einaudi (Economia all’Università di Torino) giurano per non abbandonare l’Accademia ai fascisti. Giuseppe Levi (Anatomia all’Università di Torino) dopo un primo annuncio negativo, decide con dolore di giurare per non abbandonare gli allievi.

Molti provano a separare la pratica burocratica dal proprio sentire come se fossero in uno stato di sospensione mentale. Alessandro Levi (Filosofia del diritto all’Università di Parma) e il cugino Tullio Levi Civita (Meccanica Razionale all’Università di Roma) si consultano e concludono di accettare perché il giuramento non tocca il loro insegnamento. Anche Edoardo Volterra (Diritto romano all’Università di Parma – figlio del matematico Vito che non ha giurato) specifica che l’atto dovuto non inciderà sul suo insegnamento. Giacomo Devoto (Glottologia all’Università di Padova) dichiara, invece, che il giuramento non ha valore per lui ma gli serve per continuare a lavorare. Gioele Solari (Filosofia del diritto all’Università di Torino, maestro di Norberto Bobbio) e Arturo Carlo Jemolo (Diritto canonico all’Università di Bologna) giurano con dolore per motivi economici.

E la Chiesa? Come si comporta il Vaticano nei confronti del giuramento che costringe anche i professori cattolici ad «adempire tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime Fascista»?

Pio XI, contrario al giuramento, concepisce un’interessante proposta di compromesso: i professori cattolici possono giurare, ma con riserva (non è chiaro se mentale o esplicita e dichiarata) di non contraddire i principi cattolici. Dà quindi incarico al rettore della Cattolica di Milano, padre Agostino Gemelli, di trattare con Balbino Giuliano e Mussolini l’esclusione dal giuramento dei soli professori dell’Università Cattolica. La deroga è concessa, ma con un’altra riserva (da parte del regime fascista): si proponga a tutti i professori della Cattolica un giuramento volontario. Tutti giurano volontariamente (con la riserva indicata da Pio XI), tranne quattro professori, fra i quali spicca lo stesso padre Agostino Gemelli.

Tra i ribelli solo Mario Carrara e Francesco Ruffini provano ad organizzare due tentativi di protesta. Il primo giunto a Ginevra nel novembre del 1931 stende, con il cognato Guglielmo Ferrero (che ha sposato l’altra figlia di Lombroso), un appello di protesta indirizzato all’Istituto internazionale di cooperazione intellettuale operante a Parigi nell’ambito della Società delle Nazioni. Grazie all’ampia rete di relazioni che i due mantengono all’estero, in pochi mesi si raccolgono numerose adesioni. Quasi milletrecento i firmatari tra insegnanti, giornalisti, intellettuali. Tra essi Miguel de Unamuno, docente a Salamanca, John Dewey della Columbia University, Bertrand Russel. Le condanne sono nette. Il filologo Albert Dauzat parla di «una ignominia», “The Economist” del 26 dicembre riguardo i dodici scrive che «il mondo deve portare ad essi gratitudine per la testimonianza agli ideali di libertà e dell’onestà intellettuale».

La stampa fascista contrattacca. La petizione degli intellettuali è definita «ridicola», «illecita», «arbitraria ingerenza», «infantile insolenza». “Il Messaggero” considera le reazioni internazionali «un’intrusione molesta» nelle «cose di casa nostra». “La Gazzetta del Popolo” vede nella difesa dei dodici obiettori l’adesione tenace ad antiche e superate tradizioni «secondo cui le università statali sono luoghi dove ancora sopravvivono i diritti medievali dell’immunità, dell’asilo e della libertà per studenti in sciopero e professori contestatori». Alla fine la Società delle Nazioni, nonostante le molteplici sollecitazioni, decide di non intervenire dichiarandosi incompetente.

Il 6 novembre 1931 Albert Einstein, sollecitato dall’amico Francesco Ruffini (il più illustre dei renitenti – già ministro dell’Istruzione), scrive al responsabile del dicastero della giustizia italiano Alfredo Rocco: «(…)la ricerca della verità scientifica, distaccata dagli interessi pratici della vita quotidiana, dovrebbe essere sacra per qualsivoglia potere statale, ed è sommo interesse di ognuno che gli onesti servitori della verità vengano lasciati in pace. È senz’altro nell’interesse dello Stato italiano e della sua reputazione nel mondo». Rocco, invece di rispondere personalmente, incarica uno dei suoi allievi. Ad Einstein non resterà che annotare nel suo diario: «Eccellente risposta in tedesco, ma la cosa resta comunque una idiozia da gente incolta», e poi profeticamente: «Bei tempi ci aspettano in Europa».

Cosa rimane oggi di quel gesto epico ed eretico? Quanti docenti delle nostre Università, dopo la lezione del fascismo, si comporterebbero allo stesso modo dei dodici antenati di fronte a una dittatura? Una cosa è certa i dodici assunsero sulle loro spalle le insipienze, le paure e le velleità dei colleghi silenti e lo fecero con estrema modestia al punto da convivere con la disperante sensazione di non essere stati all’altezza della situazione, di avere vissuto un momento importante da uomini normali, anzi «mediocri», dirà Levi Della Vida. Avrebbero potuto fare di più? Date le condizioni storiche non credo. A mio avviso proprio perché non hanno vissuto quella scelta come un gesto pubblico esemplare, ma come una volontà intima di non svendere la propria dignità personale, dovendo rinunciare all’insegnamento (e al reddito), rappresentano un’anticipazione di quella rivolta morale, individuale prima che collettiva, che usiamo chiamare Resistenza; per questo oggi e sempre è giusto tramandarne con rispetto i nomi e il ricordo.

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