Acqua e arsenico, l’emergenza non è finita

Un momento del convegno tenutosi alla Camera di commercio

Consigli e avvertenze da un interessante seminario degli ingegneri idraulici

L’emergenza arsenico è finita. Ma è costata tantissimo e costerà ancora molto visto che l’anno prossimo ancora non si chi e con quali fondi dovrà provvedere alla manutenzione, assai onerosa, dei dearsenificatori. Ma la domanda da porsi è un’altra: si poteva affrontare diversamente e meglio questo problema? A queste problematiche ha tentato di rispondere un seminario scientifico, svoltosi presso la sala delle conferenze della Camera di commercio di Viterbo e moderato dall’ingegener Luciano Pieri della Commissione Industria e Impianti organizzatrice dell’evento, sul tema “Rimozione dell’arsenico nelle acque destinate al consumo umano – Il caso Lazio – il ruolo e l’approccio dell’ingegnere”. La prima evidenza è che il problema delle acque e la rimozione dell’arsenico è tuttora molto presente nel Viterbese, ma al contrario di quanto ci si sarebbe dovuto aspettare, mai è stato affrontato con le “norme di buona tecnica”.

Qualificata la platea dei relatori: Luca Lucentini, dirigente del Reparto di Igiene delle Acque Interne dell’Istituto Superiore di Sanità, ha trattato l’aspetto sanitario con particolare riguardo alla tossicità in relazione alle quantità assunte; Luciana Distaso, dirigente dell’Area risorse idriche e Servizio idricointegrato della Regione Lazio, ha messo in luce tutti gli aspetti legislativi della lunga storia, non terminata, del trattamento delle acque in Italia e in particolare del Lazio; Giancarlo Daniele, dirigente della Segreteria Tecnica Operativa dell’ATO Viterbo, è intervenuto  sulla tematica della gestione delle acque rilevando la notevole mancanza di pianificazione e la conseguente situazione di prolungata emergenza che seppur ben gestita si sarebbe potuta evitare con notevole beneficio sul lato economico e non solo; Francesco Treta, libero professionista iscritto che opera prevalentemente nel settore idraulico, ha esposto con efficacia le tecnologie a disposizione per il trattamento delle acque  con particolare riferimento alla rimozione dell’arsenico; Fabio Giorgi, direttore tecnico di Talete, ha descritto come opera (con difficoltà e non certo per propria inefficienza) una società che gestisce una rete acquedottistica (assai poco) integrata e 47 impianti di dearsenificazione, distribuiti sul territorio in maniera disomogenea e molto diversi fra di loro.

A fronte di questo lungo e articolato cahier de doleances, il dibattito seguente ha evidenziato alcuni aspetti davvero interessanti sui quali i tecnici e gli ingegneri non riescono a darsi pace. Ad esempio, perché non studiare l’esatta e più adeguata dimensione di un ATO? Basta pensare alle palesi anomalie del Lazio dove convivono ATO enormi (come Roma) e ATO minimi (come Rieti e Viterbo, quest’ultimo con problematiche enormi per l’arsenico che influiscono diversamente sulla determinazione dei costi d’esercizio). E ancora: perché non analizzare e confrontare i costi d’esercizio delle società di distribuzione dell’acqua con quelli dei servizi comunali sulla base di parametri chiari ed omogenei, tecnicamente ineccepibili, confrontando infine in termini qualitativi le prestazioni offerte dai servizi? E perché continuare a gestire le emergenze, quindi il breve termine, e non investire invece, parallelamente, risorse e mezzi nella pianificazione territoriale di lungo termine, pensando all’ottimizzazione integrata della reti oggi spezzettate e parcellizzate nel Lazio, unificando in un’unica regia la gestione della rete in maniera analoga o simile a quella elettrica nazionale? Forse perché l’acqua non merita queste attenzioni? Non costa già abbastanza? Considerazione a margine: non è proprio questa la strada sulla quale si sta inesorabilmente incamminando il Lazio? Ato unico regionale e, di conseguenza, gestore unico. Sulla base del modello Acea, di cui il Comune di Roma detiene la maggioranza delle quote (51%), mentre il restante è diviso tra privati (Caltagirone e francesi). Il Campidoglio, tanto per dire, in base all’ultimo bilancio ha incassato utili per oltre 30 milioni di euro. E probabilmente nella Capitale il servizio idrico integrato (acqua e fogna) costa meno che nella Tuscia.  Inoltre, per i tecnici, unificare le reti significa migliorare il rendimento del sistema e porre rimedio a guasti di linea più rapidamente, oltreché diluire eventuali concentrazioni anomale di sostanze potenzialmente inquinanti…

Uno dei relatori

Si dovrebbe porre più attenzione nel risolvere il problema dell’arsenico ragionando sull’aspetto qualificazione dell’acqua potabile in quanto depurandola tutta si realizzano enormi sprechi. L’80% di quest’acqua se ne va oggi, per usi igienico-sanitari nei nostri bagni o per innaffiare le nostre campagne e i nostri giardini o altro ancora, perché allora non pensare, nel medio-lungo termine, a due reti: una di acqua potabilizzata e l’altra di acqua per altri usi, ridurremo di parecchio gli elevati costi di depurazione, visti anche i bassi livelli di vita utile di questi impianti. Infine, vicino al mare si potrebbe pensare ad impianti di desalinizzazione: le tecnologie di questi impianti hanno oggi raggiunto elevati livelli di rendimento e contenuti costi d’esercizio. Una seria programmazione dovrebbe tener conto anche di questi aspetti.

“Qualcuno, oltre noi tecnici, vuole portare avanti – conclude l’ingegner Pieri – qualche idea innovativa volando alto, senza pensare solo ai problemi contingenti, i quali affrontati con ‘l’acqua alla gola’ costano enormemente di più? Speriamo di sì: il tecnico, l’ingegnere nella fattispecie, vuole essere uno strumento a disposizione della società civile, per migliorare la qualità della vita, ma noi abbiamo una testa per ragionare con le leggi della fisica, delle scienze applicate con le quali non c’è bisogno di cercare il consenso di nessuno… Leggi che prima o poi devono essere rispettate”.

 

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