Migrazioni ed esodi: complessità della realtà e semplificazioni ‘dotte’

di Annamaria Rivera

In Italia, il tema ‘migrazioni ed esodi’ è sempre stato reputato alquanto secondario e non particolarmente nobile, anche in ambienti di sinistra (per non dire di quelli accademici). Ora, se un tema è considerato tale, accade, quasi per una legge sociologica, che pure i non-specialisti e i non-attivisti si azzardino a scriverne sui giornali. Non ci sarebbe da dolersene, se non fosse che talvolta lo fanno salendo in cattedra, nonostante sembrino ignorare la tradizione consolidata, sebbene piuttosto negletta, di studi e movimenti sociali intorno a questo tema.

Questa tradizione, che da noi ha quasi un trentennio, ha prodotto un patrimonio di competenze condiviso dall’insieme di persone che a vario titolo si sono occupate del tema nel corso del tempo e perlopiù se ne occupano tuttora: studiosi e studiose[1], attivisti e operatori sociali, sindacalisti, giuristi, giornalisti, per non dire degli stessi migranti e rifugiati. Certo, non tutte queste persone conoscono la letteratura scientifica più aggiornata, ma di sicuro possiedono una base comune di conoscenze empiriche, nozioni storiche, concetti e parametri politici.

Sanno bene, per dirne una, che i Cie (Centri di identificazione ed espulsione) non sono un’invenzione del centro-destra, bensì la prosecuzione, con un nome più esplicito, dei vecchi Cpt (Centri di permanenza temporanea), istituiti dalla legge 40 del 6 marzo 1998, detta Turco-Napolitano, elaborata e approvata durante il primo Governo Prodi. È allora che fu introdotta, per la prima volta nella storia della Repubblica, la detenzione amministrativa extra ordinem, per di più riservata a una speciale categoria di persone, i migranti non regolari; oggi estesa perfino ai richiedenti-asilo che abbiano fatto ricorso contro il diniego della loro richiesta.

È un po’ avvilente che lo si debba precisare, per correggere la cantonata di qualche dotto che crede che i lager per migranti siano un parto della fantasia malata del centro-destra[2]. Evidentemente quel patrimonio di sapere, che speravamo avesse travalicato la cerchia degli specialisti e degli attivisti antirazzisti, è restato alquanto di nicchia.

L’etichetta ‘migrazioni’, invece, è tornata con forza al centro del dibattito pubblico dopo la Grande Strage del 18 aprile scorso. Da allora, non sono pochi, come abbiamo detto, i neofiti presuntuosi che, cimentandosi col tema, talvolta finiscono per riproporre giusto quei cliché e luoghi comuni che il movimento antirazzista ha cercato di contrastare nel corso degli anni.

Per esempio, qualcuno di loro, avendo una conoscenza approssimativa della storia dell’immigrazione, finisce involontariamente per porsi sulla scia delle retoriche allarmistiche. Ignaro dei numerosi arrivi di massa di migranti e profughi che hanno punteggiato la storia italiana ed europea recente, afferma che oggi l’Europa sarebbe di fronte a una svolta epocale destinata, addirittura, a sconvolgere le nostre vite.

Per limitarci all’Italia, basta ricordare che in un solo giorno, il 7 marzo del 1991, arrivarono nel porto di Brindisi, a bordo di navi mercantili e imbarcazioni di ogni sorta, ben 27mila albanesi, in fuga dalla miseria e dall’illibertà. A distanza di cinque mesi, l’8 agosto successivo, dall’ormai epica nave “Vlora”, ne sbarcarono nel porto di Bari più di 20mila, in una sola volta, per essere poi internati nello Stadio della Vittoria. Più tardi, nel 1997, in seguito al caos, quasi una guerra civile, prodotto dallo ‘scandalo delle finanziarie’, un’altra ondata migratoria possente (almeno 9mila persone) si sarebbe riversata sulle coste pugliesi.

Se si comparano questi dati con i 23mila migranti e profughi sbarcati in Italia non in un giorno o due, ma nel primo quadrimestre del 2015; se si considera che l’anno precedente, nel medesimo arco di tempo, ne erano arrivati 3.735 in più (sono dati Frontex), ci si rende conto che la progressione riguarda non già gli arrivi ma le vittime della traversata del Mediterraneo: passate dalle 17 dei primi mesi del 2014 alle 1.700 dei primi mesi del 2015. “Cento volte tanto”, si rimarca in un ottimo articolo del Redattore Sociale[3].

Tra i cliché e i luoghi comuni, v’è anche la rigida dicotomia profughi/migranti ‘economici’, spesso infondata fattualmente e rischiosa politicamente, nonché l’idea ingiustificata secondo la quale oggi gli arrivi di migranti detti ‘economici’ sarebbero finiti o divenuti irrilevanti.

E’ innegabile: attualmente, buona parte di coloro che tentano la traversata del Mediterraneo sono persone in fuga da dittature, persecuzioni, conflitti, guerre civili, quindi potenziali richiedenti asilo. Ma si consideri, tra le altre cose, che, secondo il più recente rapporto di Frontex, i migranti che in aprile del 2015 sono arrivati in Europa attraverso rotte terrestri sono più numerosi di quelli giunti via mare (34mila contro 23mila); e che la gran parte dell’immigrazione, in Italia e in Europa, continua a essere costituita da migranti comunitari. Ricordo che nel nostro paese la popolazione ‘straniera’ più numerosa è quella dei rumeni: più di un milione, equivalenti a quasi il 22 per cento del totale delle persone immigrate.

Quand’anche non si conoscesse neppure l’ultimo dei dossier statistici annuali Caritas-Migrantes, pubblicati dal 1991 a oggi (o semplicemente la voce Immigrazione in Italia di Wikipedia), basterebbero queste poche informazioni per dedurre che la figura del migrante ‘economico’ non va scomparendo, nonostante la gravità della crisi economica. Non solo perché le economie dei paesi europei, pur stagnanti e in crisi, continuano ad aver bisogno, in certi settori, di manodopera immigrata. Ma anche perché ogni individuo interpreta le condizioni oggettive secondo la propria cultura, le aspettative della propria collettività, le mitologie diffuse nel proprio paese, alimentate dai media e avvalorate dagli stessi migranti in occasione dei periodici ritorni a casa.

Si è scritto che l’aspirazione al ritorno in patria sarebbe peculiarità dei rifugiati, i quali tenderebbero a mantenere solidi legami con le comunità che hanno dovuto abbandonare[4]. Per quanto ciò sia fondato, ma non assolutizzabile, conviene aggiungere che, in realtà, il mito del ritorno accomuna anche i migranti ‘economici’, come dimostrano molta letteratura scientifica e una miriade storie di vita. Non sempre il mito diventa realtà (si può invecchiare all’estero continuando a sognare di rimpatriare per sempre), ma non pochi ce la fanno a realizzarlo: si pensi ai tanti maghrebini (ma non solo a loro) che, come i nostri emigranti di un tempo, risparmiano per molti anni su salari guadagnati all’estero assai duramente per costruirsi in patria una casa e magari aprirvi una botteguccia.

Come ci ha insegnato Abdelmalek Sayad[5], il migrante è al tempo stesso un immigrato e un emigrato, è la persona del qui e dell’altrove: se egli è un immigrato per la società di arrivo, è un emigrato dal suo punto di vista e per la società da cui è partito, cui resta perlopiù legato da relazioni molteplici. I terminiconcetti di transmigrazione etransnazionalismo sono stati coniati un decennio fa, proprio per sottolineare la tendenza dei migranti a muoversi fra luoghi e paesi diversi, e a costruire circuiti transnazionali entro i quali circolano persone e denaro, beni e informazioni, culture e pratiche relazionali[6]: basta pensare all’importanza delle rimesse, spesso essenziali alle economie dei paesi di partenza.

In realtà, la stessa categoria di migranti economici è alquanto arbitraria. Gli albanesi che sbarcarono a Brindisi nel 1991 fuggivano dalla povertà come dal caos e dalla repressione dopo il crollo del regime totalitario, ma spinti anche dal mito dell’occidente.

D’altronde, come definire i giovani tunisini partiti in massa verso Lampedusa subito dopo la caduta del regime benalista, cui avevano contribuito con la loro sollevazione? Che fossero dei diseredati assoluti o dei laureati disoccupati, nel loro caso le ragioni economiche erano meno forti del desiderio di praticare, anche nella forma della libertà di movimento, la libertà politica conquistata a duro prezzo. Tutt’oggi non sono pochi i giovani tunisini che, traditi dalle promesse della rivoluzione, rischiano la vita in mare: alcuni giorni fa, al largo della Tunisia sono stati recuperati i corpi di cinque di loro, diretti a Lampedusa. E v’è ancor oggi qualche giovane che, falliti i tentativi di emigrare, si fa torcia umana in pubblico.

Per fare l’esempio di una biografia reale, in quale categoria inserire il giovane nigeriano, diplomato, di uno sperduto villaggio rurale di Edo State, il quale, sopravvissuto allo sterminio della sua famiglia e costretto a fuggire verso l’Italia, che gli rifiuterà l’asilo, a nient’altro aspira che al business, come lo chiama esagerando, cioè a qualche piccola attività commerciale che lo riscatti finanche dalla memoria del duro lavoro nei campi dei suoi genitori?

Cito questo caso, simile ad altri, per fare ancora qualche puntualizzazione. Sono anzitutto il sistema normativo, le sue interpretazioni e applicazioni a decidere, in definitiva, chi sia migrante e chi rifugiato. Inoltre, non tutti i rifugiati sono politicizzati (lo sono certamente buona parte dei curdi), quindi non tutti aspirano a organizzarsi politicamente per comunità nazionali, come pensa qualcuno.

Insomma, le biografie dei migranti e dei rifugiati sono variegate e complesse, più delle nostre, non ingabbiabili in schemi precostituiti, che a loro volta possono favorire visioni astratte e stereotipate, paternaliste o miserabiliste. Ricordo un solo dato: secondo fonti attendibili, la percentuale di diplomati fra la popolazione straniera è quasi pari a quella della popolazione italiana.

Le letture riduttive o miserabiliste sono infondate anche rispetto ai migranti, in gran parte giovani, che occupano uno dei gradini più bassi della scala sociale: i braccianti stagionali che lavorano in nero nel settore agro-pastorale, spesso in condizioni servili o schiavili. Pur con alcune eccezioni rilevanti [7], buona parte di loro fa questo lavoro non già per esperienza o vocazione, ma per necessità di sopravvivenza. Infatti, tra i braccianti ‘stranieri’ non pochi sono i rifugiati e i richiedenti-asilo; non pochi hanno un titolo di studio di livello universitario. Non è scontato, quindi, che i più aspirino a restare per sempre in quel settore, neppure nell’ipotesi che si realizzasse una nuova, auspicabile riforma agraria che, tra le altre cose, garantisse loro condizioni dignitose di lavoro, salario, contratto, alloggio [8].

Per ora, soprattutto dopo la deludente Agenda europea sull’immigrazione e le rivelazioni di Wikileaks sull’azione militare europea contro i ‘barconi’, foriera di un nuovo conflitto in Libia, altre mi sembrano le priorità. Esse sono ben enunciate nell’appello di un folto gruppo di associazioni che invitano a una mobilitazione internazionale per il prossimo 20 giugno[9]: anzitutto la garanzia di corridoi umanitari assistiti lungo tutte le vie di fuga dalle zone di conflitto, ma anche una nuova, articolata politica di migrazione legale che abbatta le barriere che provocano l’ecatombe mediterranea.

Conviene aggiungere che non solo le politiche della Fortezza Europa, ma anche le legislazioni di singoli stati concorrono a interdire qualsiasi via d’accesso sicura e legale nel territorio europeo.Sembra si sia dimenticato che in Italia è ancora in vigore la famigerata Bossi-Fini. Questa legge, legando l’ingresso per motivi di lavoro a un improbabile incontro tra domanda e offerta a livello planetario, subordinando il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno alla chimera del possesso di un contratto di lavoro regolare, non fa che incrementare i rischiosi viaggi in mare, producendo e riproducendo ‘clandestinità’, e favorendo il lavoro servile e schiavile.

Sulla Bossi-Fini come sul resto della normativa italiana – si pensi all’arretratissima legge sulla cittadinanza – non si muove foglia dalle parti del governo ‘del fare’. Dovremmo chiederne conto attivamente, oltre che rivendicare le giuste “dieci priorità per uscire dall’emergenza e costruire l’Europa del futuro”, indicate nell’appello citato.

NOTE

[1] Per citare solo alcuni tra i sociologi insigni (ma vi sono anche antropologi, giuristi, politologi), basta fare i nomi di Maurizio Ambrosini, Alessandro Dal Lago, Maria Immacolata Macioti, Enrico Pugliese.

[2] Sembra crederlo, tra gli altri, Piero Bevilacqua, in un articolo che pure contiene alcuni spunti di analisi interessanti: “La patria agricola dei migranti”, il manifesto, 7 maggio 2015. Qui egli riprende e sviluppa (ma con qualche forzatura, mi sembra) l’idea di “una seconda Riforma Agraria”, avanzata da Tonino Perna e Alfonso Gianni in un articolo precedente (v. nota 8).

[3]Da ‘invasione’ a ‘collasso’, le 6 bufale della nuova psicosi immigrazione”,Redattore Sociale, 27 aprile 2015

[4] Si veda: Guido Viale, “Cooperazione e sviluppo, la pace che l’Europa respinge”, il manifesto, 23 maggio 2015

[5] La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002 (1999).

[6] Si veda in proposito: Ralph Grillo, Betwixt and Between: traiettorie e progetti di transmigrazione, in Benadusi M. (a cura di), Dislocare l’antropologia. Connessioni disciplinari e nuovi spazi epistemologici, Quaderni del ce.r.co, Guaraldi, Rimini 2006, pp. 105-131.

[7] A proposito di eccezioni, si pensi agli indiani nel settore zootecnico, soprattuttolombardo, e ai macedoni nella pastorizia.

[8] Nell’articolo “Ci vuole una seconda riforma agraria” (il manifesto, 6 maggio 2015, p. 15), Tonino Perna e Alfonso Gianni, tratteggiano le linee per “una seconda Riforma Agraria”, sottolineando il ruolo centrale che potrebbe avere “il popolo dei migranti”. Ma precisano opportunamente che “non tutti i migranti […] desiderano e possono fare gli agricoltori o i braccianti”.

[9] Fermiamo la strage subito! L’Europa nasce o muore nel Mediterraneo, rassegna.it

(28 maggio 2015)

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