Il teatro rischia di sparire

Nel 1947 fu il primo Teatro stabile italiano e ora è il primo a essere riconosciuto «Teatro d’Europa» dal ministero dei Beni culturali (con Decreto del 5 novembre, che sarà in Gazzetta ufficiale entro due settimane). Non è un caso perciò che proprio dal Piccolo Teatro di Milano parta oggi l’allarme per il futuro della produzione teatrale italiana: «Un sistema che rischia di scomparire, travolto dai tagli e dalla crisi economica», dice senza mezzi termini il suo direttore, Sergio Escobar.

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«Intendiamoci – precisa Escobar –: sono grato al ministro Dario Franceschini per il riconoscimento e la responsabilità attribuiti al Piccolo, e per il suo impegno in difesa del Fondo unico per lo spettacolo». Ma, dati alla mano, i conti non tornano. La preoccupazione è che il riordino del sistema teatrale italiano previsto nel Decreto ministeriale del 1° luglio scorso (che fissa nuovi criteri per l’erogazione e modalità per la liquidazione e l’anticipazione di contributi allo spettacolo dal vivo) non faccia i conti con il contesto economico reale e con scelte politiche che rischiano «di mettere in crisi il modello finora vigente – precisa il direttore del Piccolo – senza sostituirlo con uno nuovo». Un modello “misto”, che si regge grazie all’intervento a sostegno della produzione teatrale non solo dello Stato (che contribuisce con meno del 30% nel complesso), ma anche degli enti locali, dei cosiddetti soggetti intermedi (Fondazioni bancarie e Camere di commercio), di sponsor privati e del pubblico di cittadini.

Tutt’altro che un modello perfetto (anzi, non sempre si è dimostrato sostenibile) e tuttavia, fa notare il direttore del Piccolo, «non si può smantellare un sistema senza prevederne uno nuovo con il quale sostituirlo. Il decreto di luglio ha grandi potenzialità, perché punta a una ristrutturazione del sistema. Ma una ristrutturazione vera deve stabilire le funzioni dei teatri nazionali (previsti nel provvedimento, ndr), dove reperire le risorse e come indirizzarle per attuare quelle funzioni. È una questione di scelte politiche». Il timore è che si inneschi una “corsa” per accaparrarsi il titolo di «Teatro nazionale», anche abbassando la qualità per arricchire i cartelloni, e mettendo a rischio l’uso delle poche risorse.
Ma il problema va oltre il decreto del ministero e riguarda le scelte politiche del Governo, che sembrano andare in direzione opposta, dato che mettono sotto pressione (finanziaria o fiscale) proprio i soggetti che finora hanno maggiormente sostenuto la produzione teatrale nel nostro Paese. Regioni e Comuni, colpiti dai tagli previsti nella Legge di stabilità, che sono i maggiori contribuenti del sistema teatrale. Basti pensare che, mentre il Fus per il 2014 è di 406 milioni, nel 2012 i Comuni, nel loro complesso, hanno investito direttamente nella cultura 1.935 milioni. Il contributo delle Regioni non è invece monitorato da sei anni, ma come termine di paragone si può prendere il dato della Lombardia che, nel 2013, ha investito 27,2 milioni. Ancora non si sa, inoltre, chi si farà carico delle deleghe alla cultura delle Province, che dal 1°gennaio del 2015 saranno abolite, e che nel 2012 hanno contribuito al sistema con 160 milioni.

Anche le Fondazioni bancarie vedono a rischio i contributi (305 milioni nel 2012), colpite da una «falcidia fiscale»; così come le Camere di commercio (52 milioni nel 2012), al centro di una profonda ristrutturazione. Né troppo ci si può aspettare dagli sponsor privati, il cui sostegno è sceso del 41% tra il 2008 e il 2013, a quota 159 milioni, e che difficilmente potranno accollarsi l’onere di sostenere il sistema teatrale, se alle spalle manca un convinto disegno pubblico. Unica voce in controtendenza è quella del pubblico. «Alla luce di questi dati – dice Escobar – mi chiedo verso quale modello stiamo andando. È urgente aprire una riflessione perché, con queste premesse, il sistema della produzione teatrale in Italia è a rischio disastro».

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