Mi sarò avvelenato? Sono sicuro di essere ancora vivo?

Udo Gumpel, giornalista televisivo, corrispondente dall’Italia per la rete TV tedesca RTL, ha partecipato alla trasmissione televisiva “Otto e mezzo” (La7 – 1° novembre).

Commentando la crisi della nostra industria pesante (AST di Terni, Ilva di Taranto, Genova, ecc), ha rimproverato noi italiani di essere imprevidenti, con la conseguenza che dobbiamo riparare sempre e con affanno i danni quando sono già avvenuti.

Ha affermato che noi siamo assolutamente, culturalmente, incapaci di fare previsione e prevenzione. Si può dargli torto?

Per quanto riguarda l’industria pesante Gumpel ha citato, con giusto orgoglio teutonico, il caso della sua città, Amburgo, che trent’anni fa aveva un’industria cantieristica navale con 25 mila addetti, “i classici operai alla Landini” (proprio così li ha chiamati).

Ora ne ha solo mille che si occupano esclusivamente di manutenzione delle navi. Amburgo ha saggiamente smantellato progressivamente e per tempo l’industria cantieristica in previsione della crisi di quel settore. Gli amburghesi hanno scelto di lasciare ad altri la fabbricazione delle navi. In cambio, ha detto Gumpel, Amburgo ha oggi 40 mila giovani lavoratori, occupati ad inventare software per videogiochi.

Gumpel ha pienamente ragione quando critica l’imprevidenza nostrana, ma non mi convince affatto per l’idea che il futuro della massa dei lavoratori stia nel software in genere, e tanto meno nel software dei videogiochi.

L’idea che creare videogiochi sia una buona risorsa lavorativa per molta parte della popolazione è un’idea assurda: quell’attività è di nicchia, aleatoria, e non produce ricchezza reale. Però Gumpel non è  il solo a pensarla così, ma ci sono anche cervelloni nostrani, annidati nelle Think- Tank,  i quali sostengono che il futuro sta tutto nel software.

E’ vero! Il mondo dell’informatica ci aiuta nel lavoro. Il computer, che sto usando in questo momento per scrivere, mi evita la penna e la carta, scrivo in modo ordinato e veloce su fogli virtuali, correggo senza pasticciare il foglio, ma, quando fra qualche minuto mi metterò a tavola, non mangerò cibo informatico, virtuale.

C’è stato qualcuno che ha seminato, coltivato, raccolto, immagazzinato, trasformato e cotto, insomma qualcuno che ha lavorato fisicamente per fare quella pagnotta che io mi gusto non solo con la vista (come immagine sul display), ma anche con l’odorato (Oh, come profuma di buono!), con il tatto (Oh, come è calda e morbida e insieme croccante!) e con il gusto (E’ semplicemente squisita!). Tutti questi “operai alla Landini”, come li chiama Gumpel, saranno stati anche aiutati da macchine, computer e relativo software, ma io sono particolarmente grato a quelle mani che hanno lavorato materialmente.

Sono un inguaribile e ingenuo nostalgico? Forse.

I cervelloni  affermano che presto i robot sostituiranno del tutto il lavoro umano. Bene! così gli esseri umani affolleranno le palestre per usare in modo del tutto inutile i loro muscoli: correranno virtualmente su pedane senza allontanarsi di un metro, solleveranno faticosamente pesi, che subito dopo caleranno giù, li solleveranno di nuovo, su e giù, su e giù… Ma questa non è la condanna di Sisifo?  Non è un po’ assurdo imitare volontariamente Sisifo?

Intanto se non ci fossero i moderni schiavi (lavoratori in nero, per lo più extracomunitari e clandestini), che ancora lavorano nei campi con le mani, noi non troveremmo nei negozi  pomodori, insalata, frutta ecc. Peccato che ognuno di questi lavoratori guadagni solo 20-25 euro per raccogliere in un giorno parecchi quintali di prodotti agricoli. Prodotti agricoli che noi paghiamo mediamente 3 euro al chilo, cioè 300 euro al quintale. Questo rapporto salario/prezzo non è un po’ assurdo?

 

Disgustato da queste riflessioni cambio argomento, o meglio, cambio assurdità.

 

In data 2 novembre ho letto su questo giornale un documento molto serio, anche troppo serio, pubblicato nel giugno scorso dal Dipartimento di Epidemiologia del Servizio Sanitario Regionale – Regione Lazio. Il documento si intitola:

Valutazione epidemiologica degli effetti sulla salute in relazione alla contaminazione da arsenico nelle acque potabili.

Studio di coorte di mortalità nella popolazione residente in provincia di Viterbo, 1990-2010.”

Già il titolo è allarmante e fa pensare che sarebbe meglio andare a passeggio o vedere un film con  Alvaro Vitali, piuttosto che mettersi a leggere. Ma a volte tendo ad essere un po’ masochista. Perciò ho cominciato a sbirciare qua e là.

Il testo, che è lungo, molto tecnico e quindi scarsamente apprezzabile da un profano come me, non invoglia affatto alla lettura. Però ho insistito e verso la fine (pag.21) ho trovato una considerazione molto interessante, ma anche allarmante. La riassumo:

“Gli studi sull’avvelenamento da arsenico nella popolazione residente in provincia di Viterbo non tengono conto dell’assunzione di arsenico attraverso gli alimenti vegetali, i quali, essendo coltivati con l’ausilio di irrigazioni con acque ricche di arsenico, possono contenere una quantità di arsenico molto elevata. Pertanto il divieto di usare l’acqua “potabile” (pardon! “avvelenata”) non ha eliminato il rischio di avvelenamento in questa popolazione, in quanto l’arsenico viene assunto con i prodotti vegetali e animali di cui ci si nutre”.

E la verdura e la frutta locale, quella detta “a Km.0”?

Mai più?  E’ meglio quella coltivata nella terra dei fuochi tra Napoli e Caserta?

E il latte, i latticini, le uova e la carne di produzione locale, tutti cibi provenienti da animali che hanno mangiato foraggio arsenicato? Saranno vietati?

E pensare che io mi son fatto pure l’orticello in un angolo del mio giardino, dove produco i pomodori, l’insalata e gli “odori”, il tutto non a Km 0, ma a metri 0. Ovviamente per l’irrigazione utilizzo acqua prelevata da un pozzo artesiano.

Considerato che io, come tanti viterbesi, mangio dunque prodotti locali “arsenicati” e considerato che, nonostante il divieto, ho pure continuato ad usare l’acqua ex-potabile sia per l’igiene sia per l’alimentazione, ora mi chiedo:  “Che mi sarò avvelenato? Sono sicuro di essere ancora vivo?”.

Sto scherzando e non voglio drammatizzare. Devo avere piena fiducia nella serietà di chi studia i problemi e nell’operosità di chi deve adottare i provvedimenti più opportuni. O sbaglio?

Intanto, nella fiduciosa attesa di efficaci e pronti rimedi, seguirò l’insegnamento di Alfio Pannega, il quale ha distillato in poche parole la saggezza di ben ventisei secoli di filosofia, da Talete a Massimo Cacciari.  Diceva il nostro Alfio, filosofo della Valle di Faul:

 

“Certo che morire se more tutti… però… però… campamo”.

Aggì

I comunicati inviali a spvit@tin.it

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