Rino Formica ad Affari italiani: Renzi è l’espressione della crisi del sistema

Il presidente del Consiglio “oscilla tra velleitarismo e opportunismo”. E ancora: “Tutto lo infastidisce. L’opposizione del suo partito, della struttura dello Stato, dei sindacati”. Ne è convinto Rino Formica, più volte ministro socialista, intervistato da Affaritaliani.it sulla situazione politica ed economica

Venerdì, 19 settembre 2014 – 11:59:00 da affariitaliani.it  Di Mariella Colonna

Conversando con Rino Formica, più volte ministro di importanti dicasteri del Partito socialista, sulla situazione congiunturale nazionale ed europea inserita in un quadro molto più ampio, internazionale, emerge che andrebbe ricomposto un nuovo trattato tra gli Stati. Un ‘dopo Yalta’.

L’ANALISI
Quando noi, da giovanissimi, ci accingevamo ad organizzare la vita repubblicana in Italia, fummo educati da una classe dirigente che aveva vissuto esperienze terribili,  il comunismo e le guerre mondiali. Essa ci avviò verso una cultura politica che si fondava su alcuni equilibri: il contesto internazionale, la stabilità democratica interna, la capacità del sistema politico di forzare gli eventi attraverso l’azione non violenta dei partiti.
Questa la rete entro la quale abbiamo operato.
Analizzando la vita politica italiana di quest’ultimo ventennio, mi sorge il dubbio che quelli della mia generazione e di quella seguente non sono stati in grado di educare le generazioni successive ad essere classe dirigente.
Ma per capire le ragioni dell’attuale caos che investe il mondo globale e non riguarda soltanto il nostro Paese occorre andare a ritroso nel tempo.

Come nasce l’attuale recessione?

Nell’immediato dopoguerra gli Stati vincitori dell’alleanza angloamericana e l’Urss convennero che l’ordine mondiale dell’organizzazione sovranazionale era saltato a causa dell’insufficienza della Società delle nazioni. Per porvi rimedio Roosevelt, Churchill e Stalin, si riunirono a Yalta, in Crimea, nel 1945, e siglarono un accordo per ristabilire un nuovo assetto politico mondiale post-bellico.
Gli accordi della Conferenza di Yalta, come nell’Ottocento fu il Trattato di Vienna, suddivisero il mondo in tre aree: occidentale, comunista, del terzo mondo. Le prime due si bilanciarono introducendo l’equilibrio atomico come elemento stabilizzante e convennero che la terza area – continente asiatico, Africa e America latina – sarebbe stata assoggettata ad interventi dirimenti delle cause conflittuali con azioni bilanciate da Usa e Urss.  L’Italia, nella ripartizione del mondo, era considerata un Paese di frontiera (lo è ancora) che –  nella convenienza dei rapporti internazionali – ha avuto margini di gioco ben al di là dei confini di appartenenza.  Questo equilibrio saltò negli anni Ottanta con la crisi del comunismo e l’implosione del sistema sovietico avvenuta nel 1989.
Questo avvenimento ha innescato una crisi dell’assetto internazionale fino a giungere alla congiuntura attuale alimentata, tra l’altro, dalla debolezza delle classi dirigenti di quest’ultimo ventennio, le quali non hanno generato un  nuovo trattato. Un ‘dopo Yalta’ non c’è stato!
Il vuoto generato dall’Occidente guidato dagli Usa, da una parte, e dall’Oriente con la crisi della direzione politica sovranazionale dell’ex Urss declassata sia per l’autoritarismo sia per il fallimento del suo sistema socio/economico interno, dall’altra, è stato colmato dall’idea ottocentesca secondo la quale è sufficiente il mercato, la liberalizzazione, la caduta delle frontiere, la globalizzazione, a ristabilire l’equilibrio tra produzione e consumo, tra capitale e lavoro, tra domanda e offerta, certi che gli elementi di turbamento dello schema ideale sono mutevoli e determinati dai comportamenti individuali e collettivi e non rispondono al criterio della oggettività della stabilità raggiunta attraverso gli autonomismi.

Alla luce dei fatti sin qui illustrati, come ha risposto la classe dirigente italiana che doveva tener conto di un contesto europeo e mediterraneo?

Non aver analizzato adeguatamente le conseguenze dell’implosione dell’Unione sovietica e la nuova suddivisione del mondo in aree geopolitiche post-comuniste, ha determinato situazioni di squilibro e di debolezza dell’altro pilastro. Quello occidentale. Se nel passato l’America era in grado di regolare l’equilibrio internazionale con una gestione bipolare, si è ritrovata a non essere più l’unica potenza pacificatrice del mondo. L’illusione degli Usa di poter intervenire da soli nel processo di armonia globale è svanita ed è emersa una incapacità di fondo: quella di non essere in grado di reggere ad un nuovo conflitto che non è ancora palesemente chiaro, ma che si sostanzia sullo scontro tra tendenze alla globalità e controtendenze alla località. La prima ha come elemento di forza la potenza della finanza mondiale, la seconda ha come elemento unificante l’esaltazione delle diversità locali attraverso lo strumento delle guerre interne.

Le classi dirigenti dell’intero mondo hanno compreso come affrontare lo stato di crisi?

Ciò che sfugge all’attenzione dei potenti è la necessità di trovare un sistema di divisione del lavoro e della produzione, oltre a risistemare le aree di competenza politica, militare  e di sicurezza. Il mondo globale non può produrre in ciascun Paese le stesse cose. Non può permettersi, in assenza di ammortizzatori sociali adeguati, di avere aree di grande povertà e altre di grande concentrazione della ricchezza. Il tema delle politiche del lavoro non vede ancora consapevoli le classi dirigenti del mondo e laddove se ne ravvisi la consapevolezza non si è preparati ad organizzare le forze globali equilibrate per sostenerle. Perciò, il crollo dei parametri stabiliti dall’accordo di Yalta ha generato – in fundo – la crisi dei corpi intermedi rappresentati dai partiti, dai sindacati, e si è diffusa l’idea che la rappresentanza sindacale è un elemento di ostacolo e che essa è una perdita di tempo.

Questi fatti  sono confusamente interpretati anche dai nostri governanti?

Matteo Renzi, in maniera inconsapevole (è l’unica giustificazione che può avere), mal tollera tutto questo. Tutto lo infastidisce: l’opposizione del suo partito, della struttura dello Stato, dei sindacati. Mi auguro che tutto questo non si trasformi in convinzione altrimenti si corre il rischio che le grandi ideologie del Novecento – sia democratiche sia totalizzanti – lascino il posto al fondamentalismo. Un mostro che pensavamo di aver sconfitto qualche decennio fa.

C’è una soluzione a tutto questo?

Lo sforzo che il residuo di politica rimasto deve compiere insieme ai partiti nella organizzazione del lavoro e nella produzione, compreso quel residuo di consapevolezza che viene dal mondo dell’informazione, è prendere coscienza che ogni qualvolta si tenti di risolvere un problema occorre sapere che non basta, non perché sia quantitativamente insufficiente, ma perché non è qualitativamente appropriato. Perché non è in armonia con tutto il resto.

Come reputa il governo di Matteo Renzi?

Quando non si hanno le tre coordinate che le ho illustrato durante questa nostra chiacchierata si oscilla tra velleitarismo e opportunismo.

Quanto è velleitario e quanto è opportunista?

Per ora è velleitario. Diventerà opportunista quando – subìta la sconfitta – si allineerà al vincitore. Adesso il suo velleitarismo lo mette nelle condizioni di poter fare tutto. I contenuti dei suoi discorsi sono i medesimi sia che si trovi in un consesso internazionale, sia in piazza, sia in Parlamento. Renzi è l’espressione della crisi del sistema politico italiano.

Quale lo spessore politico del suo entourage?

Quando si ha di fronte un uomo debole  di pensiero risulta facile attecchire con il plagio, l’adulazione. Indurre qualcuno a fare qualcosa con successo dipende dalla capacità del plagiatore e dal grado di resistenza del plagiato. In Renzi si alterna la presunzione e la capacità. È un fatto normale che un uomo sia presuntuoso, ma il grado di presunzione dev’essere inferiore alla capacità altrimenti l’irrazionalità prende il sopravvento.

Ammesso che il premier Renzi legga questa intervista e valuti di impostare la sua azione politica partendo dal considerare i tre elementi fondanti dell’equilibrio mondiale. Quale cosa dovrebbe fare per prima?

Innanzitutto, occorre intraprendere – con molta serietà – una battaglia nel mondo tenendo conto del sostegno che ha in Italia. Il 40 percento che il PD ha incassato alle ultime europee è un elemento di debolezza perché si è ricavato dalla paura degli italiani intimoriti dall’idea che si potesse uscire dall’Europa e che i movimenti euro scettici potessero avere il sopravvento. Quella percentuale proiettata nel mondo è pari al peso di un moscerino, ma anche in Italia non sarebbe granchè  se ci fosse un 60 percento coeso contrapposto.

Qual è lo stato di salute della democrazia italiana?

Malfermo. Perché non vedo reattività collettive. Mi torna in mente una considerazione di Anna Kulishoff quando davanti al crollo della forza socialista a causa del trionfo del fascismo dopo il primo conflitto bellico, disse che” sin dagli esordi il partito socialista era stato diretto da uomini che avevano sofferto e non si poteva continuare a vivere sulle glorie della resistenza di fine Ottocento e inizi Novecento”. Partendo da questa teoria e guardando a quest’ultimo ventennio balza agli occhi il rinnovamento innescato con la rottamazione di una intera classe dirigente che è stata decimata (naturalmente e non) all’inizio degli anni Novanta, sostituita dalla generazione sessantottina, erede del patrimonio politico dei loro padri, del patrimonio di credibilità dei movimenti degli anni Sessanta, senza alcuna fatica e al netto di qualche manganellata.

Quindi il sacrificio è un valore?

La rottamazione dei cinquantenni/sessantenni di oggi è l’eliminazione dalla vita politico/amministrativa del Paese di chi non ha fatto nulla ed ha fallito.
Non di chi ha fatto un’opera ed ha fallito!

Cos’ha da dire alle nuove generazioni?

Evitate di navigare astrattamente nel mondo  iperuranio delle idee ma non dimenticate di tenerne conto perchè le ideologie del Novecento sono morte e stanno per essere sostituite dai fondamentalismi religiosi e irrazionali negativisti.

La ricomposizione della rete delle ideologie democratiche è la strada maestra?

Assolutamente sì. Mentre si compie questa fatica di dottrina va mantenuta anche l’azione tenendo conto che la soluzione dei problemi è provvisoria in quanto ha bisogno del quadro composto dal contesto internazionale, dalla stabilità democratica interna, dalla capacità del sistema politico di forzare gli eventi in maniera non violenta attraverso l’azione dei corpi intermedi. L’avevano capito già nel 1815 al congresso di Vienna quando dopo Napoleone c’era bisogno di un assetto degli imperi. Non dimentichiamo che il contesto internazionale è la cornice entro la quale si muove il contesto democratico e istituzionale, e in quello istituzionale agisce la politica, i partiti, il sociale.

Europa si? Europa no?

Il nostro Paese è strategico dal punto di vista geopolitico, ha una portaerei, ma è troppo debole per fare da sé e troppo forte perché gli altri Stati possano farne a meno. Sebbene sfruttare una rendita di posizione perché gli altri non possono fare a meno di noi non ci fa morire, di contro non ci fa decollare.
Perciò, Europa con regole diverse. Moneta, bilancio e fisco, devono avere un’unica regìa sovranazionale. Pena il perdurare dello stato di equilibrio tra una forza ed una debolezza.

 

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