Alla scoperta dei misteri della Viterbo sotterranea

Venerdì sera passeggiata/racconto con Antonello Ricci nei meandri della città medievale

Viterbo sotterranea

Antonello Ricci

Viterbo – La seconda tappa del nuovo ciclo di passeggiate/racconto viterbesi ideate da Antonello Ricci si preannuncia ricca di suggestioni.

Per venerdì 13 giugno infatti, l’appuntamento è fissato a piazza della Morte, ore 21: il pubblico, accolto dallo stesso Ricci e da Pietro Benedetti, potrà scendere in verticale attraverso gli ipogei di Viterbo sotterranea, in una singolare passeggiata “surplace” nei meandri dell’immaginario municipale medievale, tra pietra acque e racconti fondativi.

Al termine del “viaggio emozionale”, avrà luogo una degustazione di prodotti tipici della Tuscia. Quota di partecipazione euro 10. Anche per questa nuova iniziativa si consiglia la prenotazione allo 0761.220851.


Vano. Un po’ come dire: insulso e imprevidente. Ma anche nel senso di cavo, cioè vuoto.

È padre Dante a immortalare nell’immaginario medievale la vanità dei senesi, precipitandola in proverbio – e proprio in relazione a quel loro sottosuolo cretoso così caparbiamente e dispendiosamente scavato per decenni – coi memorabili versi del canto XIII del Purgatorio.

Dove a parlare è l’anima di Sapia: una vecchia senese, brutta probabilmente, certo invidiosa da far schifo. E, a dispetto del nome, tutt’altro che savia. Una volta tornato nel regno dei vivi, il poeta potrà rintracciarne i parenti «tra quella gente vana» che perde tempo “a ritrovar la Diana”: sprofondata persa cioè, fra guerchi omicciòli e fuggisole, nell’ossessione di riportare alla luce del giorno il fiume fantasma che tutti giurano di sentirsi scorrere sotto ai piedi, traverso il sottosuolo argilloso del potente ma assetato Comune, quando la sera scende sulle splendide colline circostanti battute dal vento come un mare.

Risultati? Del presunto fiume carsico nemmeno l’ombra ma – in compenso – una poderosa e funzionale groviera-rete per l’approvvigionamento idrico cittadino della quale andar fieri davvero: venticinque chilometri di “bottini” (canalizzazioni ipogee) capaci di raccogliere e ottimizzare ogni stilla d’acqua disponibile e in grado di suscitare la stupita ammirazione – ancora due secoli dopo, con la repubblica ormai al tramonto – niente poco di meno che dalle labbra di sua maestà Carlo V imperatore.

Ma c’è di più. Immancabile in Dante il tema politico. Non solo perché la sciagurata invidia che stringe alla purga l’anima di Sapia è la stessa che in vita la spinse a esultare – ahimè – per la disfatta della sua patria (ghibellina) contro gli odiati guelfi fiorentini. Ma anche e soprattutto perché la baia della Diana da lei evocata serve in realtà al poeta quale pietra di paragone: per castigare i vani deliri dell’imperialismo senese del tempo, il roboante-presuntuoso espansionismo rivolto dagli “ammiragli” bianconeri alla Maremma e al Tirreno e culminato col ben poco oculato acquisto di Talamone: località che a quei tempi non sarà stato certo il delizioso porticciolo turistico che tutti oggi conosciamo.

E per aver conferma di quanto seriamente i senesi ci tenessero a farsi caput imperi – al di là delle facili ironie dei loro diretti rivali: i fiorentini, appunto – fedeli alla linea fino al rischio di bancarotta per le casse comunali, basterà una visita ai piedi della torre del Mangia: nella sala dei Nove (sede dell’esecutivo) sulle cui pareti, più o meno negli stessi decenni, Ambrogio Lorenzetti immortalava da par suo gli Effetti del buono e del cattivo governo sopra la città.

Scorrendo verso il margine destro dello straordinario paesaggio contrassegnato dal buon governo, con piazze animate e operose campagne; dopo aver varcato, lungo la via di Maremma, il ponticello sulla Merse (ancor oggi conosciuto per ponte della Pia), lo spettatore resta sorpreso dall’inattesa apparizione di un vasto specchio d’acqua: potremmo scambiarlo per un lago e invece è mare. Inequivocabilmente mare. Poiché su quelle sponde salate immortalate sulle pareti della sala-madre del governo cittadino, i senesi chiesero ad Ambrogio di cartografare a futura memoria il nome di quel loro remoto possedimento: “Talamon”. Discorso chiuso.

Qualcuno, a questo punto, potrebbe chiedere: Antonello, ma Viterbo che c’entra?

C’entra, c’entra, rispondo io.

Non solo e non tanto perché in Italia ogni Siena ha finito prima o poi per incontrare la sua Firenze: così che Lerici ebbe La Spezia, Licata Gela. E Viterbo dovette infine chinar capo al cospetto di Roma.

O perché anche noi viterbesi – magari proprio perché invidiosi di quel sacro Tevere che storia e natura vollero negarci – nonostante la generosa (sebbene anonima) abbondanza di acque e bruschi salti di quota abbiamo preferito strolicarci orfani di un fiume a modo suo fantasma: il nostro modesto-prezioso Urcionio, da noi stessi sepolto e dimenticato sotto il manto stradale.

Così che – delirando capitali etrusche mai esistite e piangendo su vecchie foto-ricordo come zitelle inconsolabili, sedotti e abbandonati dai papi in fuga – ne abbiamo ascoltato e frainteso il canto fra gli smisurati e inconditi scogli del nostro sottosuolo vulcanico: e lo abbiamo spinto giù, fin sulla sentina del nostro inconscio civico: come un oscuro rimosso, come un senso di colpa.

Ma soprattutto perché anche l’unico esplicito riferimento a Viterbo contenuto nella Comedia dantesca sembra tenere insieme in uno stesso discorso il tema della gestione civica delle acque (e delle viscere urbane) e quello dell’identità locale e del suo governo. Si tratta, come è noto, del Flegentonte: il fiumiciattolo infernale esemplato dal poeta sulle gore del Bulicame che i Viterbesi derivavano ad uso ergologico dalla nota polla sulfurea, considerata nelle superstizioni e nelle leggende del tempo alla stregua di vera e propria bocca d’inferno.

Per prima il lettore scopre l’immersione «insino alla gola» nel fosso di sangue bulicante (siamo nel canto XII) del protagonista di uno dei più efferati delitti del tempo (tanto efferato che Dante non sente il bisogno di precisare né il nome dell’assassino né quello dell’assassinato, né tanto meno il teatro locale del barbaro omicidio): si tratta di Guido da Monfort che trucidò per odio politico e vendetta di fazione Arrigo di Cornovaglia. Accadde nella chiesa del Gesù a Viterbo: nella piazza cioè cuore della vita politica cittadina al tempo dei papi e nei giorni del primo conclave. Quando cioè Viterbo era cuna alla cristianità tutta.

Nel canto XIV poi, all’uscita dei due pellegrini dalla selva dei suicidi, il Flegetonte-Bulicame torna in scena – stavolta irreggimentato tra argini – per dirigersi attraverso l’orribile sabbione alla cascata che lo strapiomberà giù per l’alto burrato fin nel basso Inferno: se resistiamo alle (pur legittime) tentazioni del narcisismo localista e ricollochiamo invece il frammento “viterbese” nel contesto della strategia discorsiva dantesca, ci rendiamo conto che il passo è dei più significativi: il poeta infatti si fa dire da Virgilio che “cosa non fu da li tuoi occhi scorta/ notabile com’è ’l presente rio”.

Segue poi una descrizione-spiegazione dell’intero sistema delle acque infernali, dall’Acheronte allo Stige fin giù a Cocito, tutta sub specie ipogea a partire dalle rovine di una statua “vieta” e dimenticata: la figura di “un gran veglio” che si erge nell’interno cavo del monte Ida, sull’isola di Creta, e dalle cui crepe tutta quell’acqua stilla, come lacrime o emorragia, per poi infiltrarsi percolare derivare fino alla palude ghiacciata che imprigiona Lucifero: potente e misteriosa allegoria, la statua del vecchio, forse del destino di ruina toccato in sorte alla monarchia e quindi, secondo Dante, alla politica stessa.

Ma taccio, ora: perché sennò che mi resterà da raccontarvi, venerdì sera, giù nei meati ctoni e nelle penombre di Viterbo Sotterranea?

Antonello Ricci 

Alla scoperta dei misteri della Viterbo sotterranea

11 giugno, 2014 

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