da comunita
Nei miei libri e nei molti studi che ho dedicato alla grande guerra, ho parlato sempre di conflitto della modernità. L’ho fatto per le dimensioni del conflitto, per l’elevato numero di uomini coinvolti, perché tutto un apparato industriale venne posto al servizio degli eserciti che combattevano. Così come la scienza, le cui scoperte, preziosi ritrovati per il tempo di pace, diventavano micidiali strumenti di morte applicati all’arte della guerra. Tra questi strumenti, mi sono soffermato spesso sulla guerra chimica, dato che il conflitto 1914-18 vide per la prima volta l’impiego massiccio di gas venefici e asfissianti come terribile arma, di certo, insieme ai lanciafiamme, una delle più spaventose messe in campo. Non esiste fronte europeo che non pagò tributo di sangue all’utilizzo dei gas, che avevano anche un effetto psicologico devastante sugli attaccati. Gli uomini che il 22 aprile del 1915 a Ypres si videro investire da una nuvola venefica di colore giallo verdastro, dovettero pensare di essere in un girone infernale di fronte a un qualcosa di diabolico. E non si contano le testimonianze del dramma dei rincalzi (specie canadesi), sopraggiunti per colmare i vuoti catastrofici creati dai gas, che vedevano commilitoni morire tra drammatiche sofferenze, soffocati dal proprio stesso sangue, rantolanti disperati a terra sputare pezzi di trachea bruciati dagli agenti chimici. Scene spaventose, che dovettero restare a lungo nella memoria dei soldati. L’impiego delle armi chimiche, diffuso già dall’antichità, aveva spinto gli eserciti a studiare dei mezzi di difesa individuale che potessero preservare i soldati in caso di attacco. Anche in Italia, dove si leggevano le drammatiche cronache dal fronte francese, nel luglio 1915 si costituiva la commissione chimica, composta da luminari della scienza italiana, che aveva l’incarico di studiare effetti offensivi e potenzialità difensive della guerra dei gas. La commissione doveva scegliere i mezzi di protezione individuale, i metodi di protezione collettiva, valutare gli aggressivi asfissianti, fumiganti e lacrimogeni, studiare i mezzi offensivi nemici, esaminare le svariate proposte relative alla materia. Come ha ben ricostruito uno dei più affermati studiosi italiani della grande guerra, Enrico Acerbi, la prima riunione della commissione, il 4 agosto del 1915, prendeva consapevolezza del più letale derivato del cloro, che i tedeschi si preparavano a usare in guerra: il Fosgene. Rapporti spionistici dalla Germania testimoniavano la grande disponibilità di tale sostanza, prodotto dall’avanzato comparto industriale tedesco. L’Italia non era certamente un’importante produttrice di reagenti chimici, esistendo un’unica azienda produttrice di cloro liquido, la Società elettrochimica di Bussi che tra l’altro produceva quantità di cloro decisamente insufficienti per l’uso bellico. Il deficit italiano si traduceva in una difficoltà di operatività e di aggiornamento degli agenti chimici utilizzabili a fini bellici, e spinse gli italiani a orientare i propri sforzi soprattutto nella ricerca delle difese contro i gas, limitando i progetti per un loro uso offensivo in battaglia. Ciò tuttavia, anche l’evoluzione della maschera antigas italiana ebbe un percorso deludente, quasi grottesco. Nel maggio 1915, cinque giorni dopo l’entrata in guerra, si riuniva a Torino la commissione per lo studio dei gas asfissianti e mezzi di difesa. In quella sede il professor Icilio Guareschi propose una sua relazione in cui si evidenziavano due aspetti fondamentali della protezione antigas: la necessità di proteggere gli occhi oltre alle vie respiratorie e la supremazia dei filtri assorbenti formati da composti solidi piuttosto che da reagenti in soluzione. Il modello della maschera a respiratore Guareschi, l’unico prototipo del 1915 relativo agli eserciti dell’Intesa, venne presentato a Roma e sperimentato al cospetto dei prof. Ciamician e Pesci, illustri chimici. Tuttavia, seguendo ancora Acerbi, per una serie di imprevisti del tutto correggibili, tale maschera non venne mai adottata e prodotta in Italia. A essa, infatti, furono preferiti modelli copiati dalle maschere a tampone francesi, con dei filtri che dovevano essere imbevuti di reagenti in funzione anticloro. In particolare una maschera, che prese il nome proprio di Ciamician e Pesci, fu la massima responsabile della catastrofe del San Michele, quando nel giugno del 1916 gli austriaci annientarono reparti italiani utilizzando il gas. Solo dopo Caporetto, gli italiani acquistarono in Gran Bretagna le prime maschere con il respiratore esterno, incredibilmente simili al prototipo di Guareschi. Il dramma delle armi chimiche dovette comunque impressionare le coscienze del mondo, tant’è che un’apposita convenzione ne vietò l’uso. Ci penseranno gli italiani a riaprire il discorso in Etiopia, utilizzando l’iprite sulle truppe del negus. Una mostruosità che demolisce il mito degli “italiani brava gente”.