Conoscere la schiavitù

Progetto finanziato dallo European Research Council  A capo Alice Bellagamba della Bicocca di Milano

Conoscere la schiavitù

da indro

935 mila euro. Tale la cifra che verrà destinata a un progetto, finanziato dallo European Research Council, per studiare la schiavitù; esso sarà coordinato da Alice Bellagamba, docente di antropologia culturale nel dipartimento di Scienze Umane per la Formazione ‘Riccardo Massa’ dell’Università di Milano-Bicocca. Quattro le aree di indagine del progetto, che durerà fino ad aprile 2018, intitolato “Shadows of Slavery in West Africa and Beyond. A Historical Anthropology”. Si tratta di: Africa Occidentale, Nord Africa, Oceano Indiano e Asia Centrale; in particolare concernerà gli Stati di: Senegal, Libia, Madagascar e Afghanistan del Nord. Si studierà la schiavitù da diversi punti di vista: storico, politico, economico, sociale; la sua evoluzione, ma soprattutto la sua interrelazione nel binomio: schiavitù-libertà. Molto spesso, sottolinea Bellagamba, non si tratta di un ossimoro: «Dovremmo cominciare a pensare – afferma l’antropologa – che ci possono essere forti elementi di coercizione nel lavoro libero, così come elementi di libertà nel lavoro coatto».

Se i recenti flussi migratori, sono legati a una ricerca di libertà, per vedere maggiormente tutelati i propri diritti fondamentali dell’individuo, non si può dimenticare, ugualmente, che terre dove la tratta dei neri fu più forte, o dove si ebbe la detenzione degli Indios in campi separati, furono la madrepatria della lotta per l’indipendenza; pensiamo alle Americhe, all’America, agli Stati Uniti d’America, artefici della guerra d’indipendenza e di una delle dichiarazioni più famose al mondo in tema di libertà inviolabili, dopo la Dichiarazione dell’uomo e del cittadino francese a seguito della Rivoluzione del 1789; tanto che, ancora oggi, il simbolo di questa nazione è la Statua della Libertà. Tuttavia, ciò che accadde in passato, continua coi flussi migratori di tutto il mondo attualmente, sebbene la “schiavitù” assuma connotati diversi, che vanno studiati, anche celati sotto apparenti forme di libertà.

Era il 1807 quando il Parlamento inglese approvò lo Slave Trade Act, dichiarando illegale la tratta degli schiavi attraverso l’Atlantico. In Italia, il tema della schiavitù è regolato dalla legge n. 228 del 2003 (“Misure contro la tratta di persone”); l’Unione Europea, invece, ha emanato nel 2011 la direttiva contro il traffico di esseri umani. Tuttavia, se la tratta di neri sembra un retaggio di un passato remoto, al contrario la “schiavitù”, anche in senso più o meno lato, non risulta affatto debellata. Non meno dilaganti ed allarmanti sono, infatti, fenomeni quali: i traffici di armi e droga, ad opera della malavita organizzata, in cui cadono vittima spesso povera gente, proveniente proprio dai paesi presi in esame dallo studio, in cerca di una speranza, che invece trova una situazione di privazione peggiore della precedente. Anche questa è schiavitù: privazione di ogni libertà e diritto. Così come l’induzione alla prostituzione, o lo sfruttamento, anche minorile, in imprese che approfittano di manodopera a basso costo. Persino multinazionali note a livello mondiale. Oppure è una sorta di “schiavitù”, anche il lavoro sottopagato, spesso, sia di giovani che di donne, soprattutto immigrate, in vari campi. Un esempio su tutte quello delle badanti. Schiavitù anche le dure condizioni sul luogo di lavoro, con una forte discriminazioni tra uomini e donne, in particolare straniere, nello specifico se di colore. Dunque la schiavitù ha assunto forme nuove, diverse, complesse, che è bene investigare.

Pertanto a livello internazionale si fatica a riuscire a trovare una definizione adatta tout court al termine schiavitù; di conseguenza anche a livello normativo è difficile stare al passo coi tempi, con questo sviluppo rapido e notevole di un fenomeno che non è più circoscritto, né ad un’area, né ad un campo, né a un periodo. Soprattutto necessita di essere analizzato più approfonditamente per non incorrere in banali generalizzazioni minimaliste. In Italia vi sono molte imprenditrici donne dirigenti, è stata eletta un ministro di colore, l’on. Kyenge, sebbene vittima di attacchi razzisti e xenofobi: anche quella è schiavitù. Quest’ultima equivale a marginalizzazione, esclusione, discriminazione, privazione di qualsiasi forma di parità di diritto; nonostante i passi in avanti compiuti, appena accennati, ma gli esempi potrebbero essere plurimi: la stessa Cina si è molto sviluppata, diventando una potenza egemonica, pari se non superiore alla stessa America, non è più quella dei tempi dei bambini sfruttati nelle grandi fabbriche di prodotti a basso costo, competitivi sì, ma scadenti. E qui si inseriscono altri due aspetti centrali della problematica: il fatto che, spesso, la schiavitù si origini proprio per motivi di sviluppo di una nazione (gli stessi scambi di ‘schiavi’, come simbolo di vittoria e pegno da pagare per i perdenti), il che enfatizza il divario tra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri. È schiavitù anche il costringere alcuni ceti sociali, che pure producono ricchezza al Paese e contribuiscono alla sua crescita, a vivere ghettizzati, lontani da un’élite egemonica, che si trasforma in un’oligarchia di pochi, attenta solamente ai propri interessi e nona a quelli della massa (errore grave nella società della globalizzazione); ciò accade soprattutto nelle società multiculturali di vecchia tradizione coloniale: senza andare tropo lontano si pensi alle banlieues parigine; senza fare accuse azzardate, ma l’agitazione che le caratterizzano è indice di un’intolleranza, da parte della metropoli parigina, latente, ma che tende ad affiorare nel momento stesso in cui si toccano determinati argomenti: il diritto all’istruzione, allo studio, alla cultura, l’accesso al lavoro e, soprattutto, il diritto di voto e di religione. La tematica del velo, richiama i conflitti di origine religiosa che caratterizzano, ad esempio, le zone prese in esame dallo studio, dove convivono minoranze religiose differenti, musulmani accanto a cattolici. Il colore della pelle, pertanto, non è più la prerogativa assoluta che caratterizza il fenomeno della xenofobia, né tanto meno della schiavitù.

Abbiamo visto episodi anche per minoranze rom, nella Capitale e nel circondario, proprio anche nelle recenti votazioni per la corsa al Campidoglio. Quante volte si è sentito dire: gli immigrati rubano il lavoro, senza considerare le posizioni che vanno a ricoprire. Dunque ecco che “schiavitù” (in qualsiasi delle forme in cui la si voglia intendere) si lega alla lotta per una mobilitazione sociale, dal punto di vista individuale, della crescita economica e di acquisizione di potere, di stampo colonialistico, a livello nazionale. Senza considerare la perdita, che è ciò che più si avvicina al termine schiavitù, che comporta, sia al singolo, sia dal punto di vista di ordine all’interno del Paese. Per ottenere un pò di benessere, avendo un minimo di ambizione, l’individuo, spesso, deve sopportare mille e più privazioni e stenti: i noti “viaggi della speranza”, che si tramutano in tragedia; o i pregiudizi e le discriminazioni una volta giunti in loco: violenza fisica e psicologica, condizioni di disagio, a volte peggiori di prima. Spesso si arriva persino a un’impossibilità di far valere i propri diritti: gli irregolari contano pari a zero per la nazione d’arrivo. I clandestini, molte volte, finiscono nei Cie (Centri di identificazione ed espulsione), vivendo in condizioni precarie prima di essere rispediti a casa. E, soprattutto, l’immigrazione, se associata alla costrizione di vivere in schiavitù, comporta l’assegnarsi, nella disperazione, alla malavita organizzata, incrementando così la violenza e il sovraffollamento delle carceri, problema consistente soprattutto per le carceri. Dunque, si rischia che si complica l’inserimento sociale che, soprattutto nell’era della globalizzazione, potrebbe essere una risorsa.

Per fare rete, ovvero per garantire questa collaborazione reciproca tra Stati diversi, occorre conoscenza. Questo il senso dello studio, condotto dalla prof.ssa Bellagamba. Andare in loco, vivere a contatto con “l’altro”, con quel “diverso” che fa paura, che poi forse tanto diverso da noi non è, se si considera l’umanità che lo caratterizza, che è in noi come nello straniero, che prova le stesse emozioni e che ha le stesse esigenze. Raccogliere dati ed esperienza personali, che finora è quello che manca e che non si trova sui libri di storia. Scambiare le nozioni, metterle a contatto, poiché ogni Stato ha influenza e legami con gli altri. Per dare un quadro complessivo della situazione per capire quello che significa essere schivo oggi, la domanda da cui si è partiti per indagare un campo ancora tutto da scoprire. Per capire se la schiavitù è davvero terminata o se ogni forma di sopruso è schiavitù, in un’epoca in cui i casi di razzismo, di violenza sulle donne sono sempre più frequenti, anche e soprattutto in casa. Ciò anche per superare ogni forma di barriera (fisica, geografica, culturale, ideologica) nell’era della globalizzazione. I fenomeni diventano macro-fenomeni mondiali, collettivi, non più nazionali e /o individuali: si parla di gruppi di persone, anche se si diritti del singolo. Nello studio, infatti, ci si concentrerà su tre marco-filoni: il binomio schiavitù e libertà soprattutto della “schiavitù” dopo l’abolizione; del tema legato a questioni di genere; del problema connesso alle politiche nazionali e all’istituzione Stato, quasi come uno strumento o un’ostentazione del potere, del successo e della predominanza.

Ci si interroga: si è conquistata davvero ricchezza o quelle nuove forme di schiavitù sono una perdita in termini di ricchezza e di potere? Cioè, rigirando la questione, non si sarebbe più potenti se si investisse in quei soggetti, piuttosto che sfruttarli, discriminandoli? Politiche nazionali troppo protezionistiche aiutano o sono un limite? E il ruolo delle istituzioni internazionali e delle organizzazioni non governative quale deve essere? Interrogativi che nascono spontanei, ma che non sono scissi né si allontanano troppo dal problema. Tali forme di discriminazione, quanto si legano alla ricerca della purezza della razza, di stampo hitleriano? Ritornando alla connessione con atti razzisti. Soprattutto, è un caso che concerna stati dove vi fu lo sfruttamento delle miniere d’oro, come il Madagascar? Quindi, forse, occorrerebbe chiedersi: quali sono i “nuovi” schiavi, più che quello che significa essere schiavi nella società odierna, in cui sembra siamo tutti vittime e schiavi del consumismo, dei mass-media, persino di una certa politica ideologica (soprattutto nel centrodestra, tanto che le larghe intese son difficili da costruirsi ed è occorso l’intervento del Presidente Napolitano) e, che spesso parla per spot, come la pubblicità, come i mezzi di comunicazione stereotipati, che annullano ogni forma di sentimento, lasciando posto a macchine che ci rendono automi; come chiavi che eseguono un lavoro meccanico, che ci viene imposto da una società in cui i valori che contano si sono un po’ persi, lasciando posto al dio-denaro, al business indiscriminato e spregiudicato, equiparando, stavolta sì, Paesi sviluppati e in via di sviluppo. Nonostante la schiavitù fosse stata abolita in Libia nel 1853, in Madagascar nel 1896, nel Senegal rurale nel 1905, in Afghanistan nel 1923.

Tutte vittime di una crisi di sistema, prima che economica, in cui c’è sempre qualcuno che comanda e che impone regole del mercato, più che di vivere civile. Schiavi, ancora una volta, del mondo degli affari e della borsa, eccellenza tipica americana. Siamo usciti dal colonialismo o, anch’esso, si è trasformato, ha cambiato fisionomia, ma non è scomparso del tutto? Un pò come nella vita e nei rapporti sociali, ci sono vittime e predatori, un pò la legge della giungla che domina, che è questo che riconduce alla “schiavitù”.  Paradossalmente, è proprio da personaggi istituzionali di queste terre che viene l’esempio di buona politica, di un attivismo a favore dei diritti umani; pensiamo a: Nelson Mandela (finito in prigione per lottare contro l’apartheid nel Sud-Africa, che ancora paga i postumi di un’infezione polmonare, tubercolosi presa durante la prigionia per cui è stato, recentemente, nuovamente ricoverato) e Aung San Suu Kyi (arrestata in Birmania, nell’Asia sudorientale); per citare due Premi Nobel da contrapporre alla cattiva politica, la buona politica che viene proprio dalle aree madrepatria della schiavitù.

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