Con tutta l’energia possibile: L’impronta ecologica

 

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Lunedì 03 Giugno 2013 19:37

 

 

Viterbo ENERGIA Nel tempo che viviamo, argomenti come i cambiamenti climatici e le tante scelleratezze ambientali connesse nelle attività umane, avvenute soprattutto dopo la ricostruzione industriale intervenuta dopo la seconda guerra mondiale, hanno fatto emergere, fino dai primi anni ’70, l’eccessiva pressione delle attività dell’uomo sugli ecosistemi, evidenziando la limitatezza del pur generosissimo pianeta che abitiamo. 


Tutto ciò ha reso necessario cominciare e rivedere criticamente un modello di sviluppo, cercandone uno nuovo, capace finalmente di non vedere unicamente nel continuo incremento dei consumi, l’unico fattore per la valutazione della qualità della vita.  

Una delle esperienze più interessanti per iniziare un percorso alla ricerca di un nuovo concetto di sviluppo, è stata quella fatta oramai 15 anni fa, quando, nel 1996, l’ecologo William Rees della British Columbia University di Vancouver (Canada) e successivamente uno dei suoi allievi, Mathis Wackernagel, oggi direttore dell’Ecological Footprint Network, coniarono un metodo, denominato “Impronta Ecologica”, capace a partire da rilevamenti oggettivi sullo stile di vita e sui consumi delle persone e delle comunità, di rapportarli alla disponibilità di superfici necessarie a garantirli, per capirne meglio la tanto “parlata” ma spesso poco ricercata e praticata “sostenibilità”, assunta oramai in quegli anni nel lessico corrente. 

Tale metodologia, pur con i suoi limiti di stima a livello di dettaglio (non viene per esempio considerato l’’inquinamento, ad eccezione delle emissioni di CO2), è forte della sua immediatezza ed efficacia nel misurare l’impatto dell’uomo sugli ecosistemi ed ha avuto in questi anni una diffusione trasversale sulla comunità, non rimanendo confinata all’ambito degli “addetti ai lavori” ma affermandosi nei vari contesti, non ultimo quello scolastico-didattico, rendendo possibile fare opera di sensibilizzazione tra le nuove generazioni e divenendo di fatto uno degli strumenti più utilizzati nell’ambito degli studi sulla sostenibilità.

L’Impronta Ecologica permette di visualizzare con grande immediatezza cosa significa consumare troppo, superando la quota di risorse cui si avrebbe diritto.  

Infatti, confrontando l’impronta di un individuo (o regione, o stato) con la quantità di terra disponibile pro-capite (cioè il rapporto tra superficie totale e popolazione mondiale) si può capire se il livello di consumi del campione è sostenibile o meno.

 

Impronta ecologica degli stati del mondo nel 2007 secondo la Global Footprint Network. Fonte Wikipedia

 

Acquisire il concetto di “limite” nei confronti delle risorse del nostro pianeta rappresenta sicuramente il punto di partenza e l’acquisizione di una consapevolezza, per individuare ed intraprendere azioni di risanamento, tanto a livello politico quanto nella propria dimensione personale. Secondo i calcoli più recenti l’impronta ecologica dell’umanità è di 2,2 ettari globali pro capite, mentre quella dell’Italia è di 4,2 ettari.  

Osservando i dati relativi all’Impronta Ecologica dei vari paesi del globo saltano subito “numericamente” sotto gli occhi le varie facce del nostro pianeta, con Paesi che, come gli Stati Uniti, sono sulla soglia dei 10 ha/procapite con un incremento di circa il 150% rispetto alla superficie disponibile, passando dal nostro paese che, seppure di poco, ha anch’esso, con i suoi oltre 4 ha/procapite, superata la propria superficie disponibile di 3,8 ha/procapite, per arrivare a paesi come il Bangladesh, o molti paesi del Centro-Africa, comel’Etiopia, ancora ben al di sotto di 1 ha/procapite.

 

Impronta

Impronta Ecologica

Ecologica

rispetto alla terra

Austria

4,9

-3,12

Stati Uniti

9,6

-7,82

Australia

6,6

-4,82

Svezia

6,1

-4,32

Canada

7,6

-5,82

Francia

5,6

-3,82

Italia

4,2

-2,42

Spagna

5,4

-3,62

Argentina

2,3

-0,52

Cina

1,6

0,18

Egitto

4,2

-2,42

Etiopia

0,8

0,98

India

0,8

0,98

Mondo

1,78

0

 

Impronta ecologica di alcuni dei principali paesi. Fonte Wikipedia

Si tratta di un tema di grandissima attualità nel quale si sono inseriti i maggiori economisti mondiali, tra i quali, uno in particolare, Herman Daly, Professore di economia presso l’Università del Mariland, che tra i primi ha criticato il concetto di crescita economica, che ha guidato il nostro sviluppo fino ad oggi. 

La posizione di Daly parte innanzitutto dalla contestazione della mistificazione che spesso viene fatta fra i due termini di “Crescita” e di “Sviluppo”, troppo spesso impropriamente intercambiati ed usati come sinonimi, laddove invece con la Crescita si dovrebbe andare ad indicare la dimensione quantitativa, mentre lo Sviluppo dovrebbe di contro esaltare lacomponente qualitativa, componente quest’ultima che dovrebbe essere proprio quella, a parere di Daly, ad essere preminente nelle scelte internazionali, dopo gli ultimi decenni di industrializzazione e di depauperamento indiscriminato del nostro pianeta. 

In un tale contesto, infatti risulta davvero assurdo ed inconsistente continuare a misurare la crescita e lo stato di benessere dei popoli e delle nazioni solo valutando la componente quantitativa costituita dal PIL (Prodotto Interno Lordo) e cominciare invece ad introdurre componenti che afferiscano anche alla sfera qualitativa della vita. Uno degli approcci più interessanti di superamento del PIL come unico indicatore dello sviluppo è rappresentato dal HDI (indice di sviluppo umano); si tratta di un indicatore composto, utilizzato per paragonare tra loro i diversi paesi per mezzo di tre variabili: speranza di vita, tasso di scolarità e ricchezza (PIL reale). 

Solo indicatori composti come questo possono aiutarci a valutare la sostenibilità della vita in uno Stato, una regione o una città; dal momento che sono in grado di interpretare lo stato dell’ambiente e le pressioni delle attività umane e permettono la rappresentazione sintetica dei problemi indagati, senza perderne il contenuto informativo. Un tale approccio assumerebbe veramente un valore non solo analitico ma anche sinottico, raccogliendo informazioni finalizzate a permettere una valutazione, proprio come la temperatura corporea è un indicatore dello stato di salute dell’organismo umano. Dovrebbero essere semplici, credibili, sintetici.

Le energie rinnovabili e lo sviluppo

Dopo questo lungo preambolo, è importante introdurre l’assoluto ruolo che stanno avendo le energie rinnovabili, come elemento di riscoperta, per l’uomo, delle proprie radici, supportate dalle nuove tecnologie, che stanno avanzando impetuose, rendendole così sempre più accessibili ed attuabili. Parafrasando il ruolo delle rinnovabili, ci viene bene questa frase “riscoprire le nostre tradizioni, attraverso le nuove tecnologie energetiche”.

L’energia, come tutti sappiamo è “il motore della vita”, e produrla il più possibile nel luogo dove  viene utilizzata, rappresenta un fattore importante di riscoperta delle nostre origini. Ricordiamo, in questo senso, come le biomasse siano state utilizzate per produrre energia fin dagli albori della civiltà umana, dall’uomo cavernicolo, che bruciava la legna per riscaldarsi. 

In passato perciò per biomasse si intendeva principalmente materiali di raccolta e risulta. Oggi con l’aumento delle problematiche di inquinamento su scala locale e del crescente riscaldamento del pianeta su scala globale, indotte dalla forte dipendenza dalle fonti energetiche di origine fossile utilizzate nei grandi processi energetici, le biomasse stanno avendo una grande riscoperta, divenendo il fulcro di molti interessi tecnico scientifici.

Che dire dell’acqua, autentica protagonista delle vita, fin dalle civiltà più arcaiche, e quella che può essere considerata, anche nell’era recente dell’energia elettrica, l’antesignana di tutte le energie rinnovabili, oltre che fondamentale fonte, nella soddisfazione di alimentarsi dell’uomo attraverso la capacità molitoria, per frutti e cereali, che ha permesso l’avanzare delle civiltà.

Altra energia rinnovabile, autentico motore delle civiltà, è quella del vento , che ha permesso l’avanzare delle civiltà attraverso la navigazione, che fin dall’antico Egitto mosse le imbarcazioni, consentendo commerci altrimenti impossibili e scoperte di grandi continenti. 

Ma la forza del vento fu anche la principale fonte energetica per realizzare, come già visto per l’acqua,  le macine del grano o delle olive (mulini a vento) oppure per pompare acqua dai pozzi, lasciando tracce su paesaggi come quello maremmano, atavicamente alla ricerca della risorsa idrica, dove i rotori multipala mossi dal vento per sollevare l’acqua dei pozzi, sono divenuti oramai parte integrante del paesaggio.

Abbiamo passato in rassegna tutte le forme di energia secondaria, energie cioè, di paternità indiretta del nostro astro principale, il sole, proprio lui, che rappresenta, se utilizzato nelle due diverse potenzialità dirette di luce e calore, la forma di energia più diffusa e maggiormente prevedibile nel tempo del pianeta.

E’ questo motivo che sta facendo si che sia proprio l’energia fotovoltaica, che sfrutta la dimensione luminosa del sole, e quella solare termica, che sfrutta invece la parte termica della radiazione solare, quelle con un linguaggio più globale nei diversi ambiti territoriali del pianeta, pur se con connotazioni differenti in funzione della latitudine.

Possiamo davvero dire quindi, che questo modo più aperto e democratico di vivere la risorsa energia, che le fonti rinnovabili ci mettono a disposizione, evitando il più possibile lo spostamento di risorse energetiche da un continente all’altro, spesso percorrendo più di un oceano, rappresenta un’occasione irripetibile per riscoprire le nostre radici in chiave moderna, con potenziali grandi benefici per la società e per il nostro benessere interiore e materiale. 

Sta però anche in questo caso all’uomo, orientare correttamente le scelte, affinchè possa essere davvero il bene comune quello di riferimento.

Carlo Bonelli

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