Africa: “Yes we can” do more

Venerdì, 7 settembre 2012 – 11:06:00

Di Lia Quartapelle, Research Fellow ISPI, Programma Africa

Se c’è un posto al mondo in cui la vittoria di Barack Obama del 2008 è stata festeggiata tanto, persino più che nel suo quartier generale di Chicago, è stato in Africa: a Kogelo, nel villaggio natale di Obama Senior, per festeggiare l’elezione del figlio si macellò un vitello, in Kenya il giorno successivo all’elezione venne dichiarato festa nazionale. Mentre alcuni bambini africani venivano battezzati Barack, la febbre elettorale si spargeva per tutto il continente: il primo “figlio dell’Africa” diventato presidente della nazione più potente al mondo non avrebbe potuto che tornare nel continente delle sue radici per cambiarne i destini individuali.

La vittoria di Obama rischiava di essere un’arma a doppio taglio per la politica africana del presidente: da un lato c’era l’eccesso di aspettative di carattere quasi messianico per quello che avrebbe dovuto fare per il continente nero, dall’altro Obama doveva bilanciare le azioni con possibili accuse di incorrere in un conflitto di interessi. Il compromesso tra non fare abbastanza e fare troppo è stato individuato in un mix di azioni simboliche e di politiche in continuità con gli aspetti positivi delle azioni africane dei predecessori.

Dal punto di vista simbolico, già l’elezione del figlio di un africano dimostrava in sé che l’Africa poteva farcela (riprendendo anche il fortunato slogan elettorale “Yes we can”). A questo si sono aggiunti i primi atti della presidenza: le nomine di Susan Rice – afro-americana, già sottosegretario di stato con delega all’Africa durante la seconda amministrazione Clinton – ad ambasciatore alle Nazioni Unite e del generale Jonathan Scott Gration – cresciuto nell’allora Congo belga e di madrelingua swahili – a inviato speciale in Sudan sembravano confermare che da un lato l’Africa avrebbe dovuto assumere un ruolo più da protagonista nei forum multilaterali mentre nel caso delle crisi regionali gli Usa avrebbero cercato un approccio più conciliatorio rispetto a quanto fatto da Bush. La presidenza Obama ha inoltre effettuato degli importanti viaggi in Africa: nel 2009 Obama fece una storica visita in Ghana, dove pronunciò un non scontato discorso davanti al Parlamento e a Cape Coast, uno dei “santuari” del viaggio senza ritorno degli schiavi, trovò le parole giuste per stabilire – lui figlio di un africano più che afro-americano in senso stretto – un rapporto positivo fra Africa e America nel ricordo dell’Olocausto nero; il segretario di stato Hillary Clinton ha fatto due lunghi e accurati tour nel 2009 (Kenya, Sudafrica, Angola, Rd Congo, Nigeria, Liberia e Capo Verde) e nel 2012 (Sud Sudan, Uganda, Kenya, Malawi, Sudafrica, Ghana); Michelle Obama si è recata in Sudafrica e Botswana nel 2011.

Le linee direttrici della politica africana degli Stati Uniti, poi delineate compiutamente nella “Strategia verso l’Africa sub-sahariana”, presentata a luglio 2012, non si discostano molto da quelle delle precedenti amministrazioni. Quattro sono i pilastri fondanti: rafforzare i governi democraticamente eletti, sostenere le opportunità di sviluppo, crescita e commercio, consolidare la sanità pubblica e risolvere i conflitti con mezzi pacifici. L’enfasi sulla promozione dei governi democratici e sulla crescita riprende infatti le parole chiave inaugurate dalla presidenza di Bill Clinton, mentre l’attenzione alla sanità deriva dai programmi di George Bush, forse una delle iniziative di più ampio respiro e di maggiore impatto della sua presidenza (il Millennium Challenge Corporation, il President’s Emergency Plan for AIDS Relief, e la President’s Malaria Initiative).

Al di là di simboli e linee strategiche, gli analisti avevano ipotizzato che un presidente di origine keniana riuscisse a prestare maggiore ascolto alle posizioni ed esigenze africane nella politica internazionale, riducendone l’aspetto utilitaristico (che aveva caratterizzato il rapporto tra l’Africa e l’amministrazione Bush, che considerava il continente strategico solo in ambito energetico e militare) a favore di un approccio più bilanciato e di un rilancio dei rapporti in particolare con i paesi emergenti del continente sub-sahariano (Nigeria, Sudafrica). Certamente, l’Africa non ha un peso elettorale paragonabile ad altri dossier caldi delle relazioni estere statunitensi, ma una nuova strategia per il continente poteva rientrare in un ripensamento in chiave multilaterale e di un diverso stile di leadership globale.

Tra i successi del nuovo corso obamiano si possono annoverare i progressi nel percorso di transizione dei due Sudan, il cui processo di separazione lascia però spazio alla rivalità Etiopia-Egitto, entrambi alleati di Washington; una rinvigorita attenzione nei confronti della Somalia, dove gli attacchi contro i militanti islamici e il via libera dato al Kenya e all’Etiopia per l’invasione del paese stanno effettivamente riducendo la potenza di fuoco di Shabaab; un maggiore impegno militare nella lotta alla pirateria che ha più che dimezzato gli attacchi contro i mercantili nel Golfo di Aden. Assorbito da crisi inaspettate e molto complicate in altre aree del mondo, il presidente non è però riuscito a gettare le basi per la creazione di un rapporto che si reggesse su fondamenta nuove, rispettose e inclusive, che valorizzasse l’apporto dell’Africa nel sistema internazionale, né è riuscito a rafforzare il ruolo di portavoce regionali dei due grandi attori continentali (Abuja e Pretoria). Basta pensare che proprio gli Usa hanno sconfitto la Nigeria nella nomina del ministro delle Finanze Ngozi Okonjo Ikewala a presidente della Banca mondiale, mentre il ruolo di mediazione che il Sudafrica ha cercato di ricoprire nella crisi libica non è stato neanche preso in considerazione dalla Casa Bianca. Inoltre, dalla Somalia alla continua presenza militare nel Mali, l’amministrazione Obama ha mantenuto la postura militare già assunta dall’amministrazione Bush, con l’affannosa ricerca di una sede per Africom. Anche la visita di Hillary Clinton in Africa nell’agosto 2012 è stata letta soprattutto come una mossa di una partita strategica più globale, ovvero contrastare l’avanzata di Pechino.

Per appoggiare la politica africana di Obama non basta pensare che, se Romney dovesse vincere, la nuova amministrazione, stretta tra i falchi neo-con e i Tea-Parties che mirano a una radicale riduzione del bilancio statale (e quindi anche dell’assistenza allo sviluppo, cresciuta in modo sensibile durante la presidenza Bush), sarebbe certamente meno ben disposta verso un’Africa protagonista. Se Barack Obama venisse rieletto, dovrà rilanciare i legami simbolici intessuti in questi quattro anni con il continente, dando un contenuto concreto di vera partnership e di maggiore partecipazione dell’Africa alla gestione delle scottanti questioni globali (e non solo delle crisi regionali). Vale la pena di fare questo sforzo, per evitare che la frase pronunciata da Barack Obama davanti al parlamento ghaniano nel luglio 2009 «Africa’s future is up to Africans » assuma un’eco distorta, andando a suggerire piuttosto che l’Africa deve farcela da sola a trovarsi un posto nel mondo e che l’amministrazione statunitense se ne lava le mani.

 

 
 
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