Le bombe parlano…

da il contesto quotidiano

di Daniele Camilli

Le bombe non si limitano ad esplodere, uccidere e lasciare i segni per una vita intera, come accaduto ieri mattina a Brindisi davanti alla scuola Morvillo Falcone. Come accaduto tante altre volte in Italia, da Piazza Fontana nel 1969 agli attentati del 1993.Le bombe parlano. Anche quella di Brindisi. A loro modo sono un input verso il futuro, per condizionarlo e incanalarlo. Perché la storia non è frutto di un destino provvidenziale iscritto nel Dna delle società, ma il prodotto di eventi che, prima ancora di manifestarsi, sono l’insieme di molteplici variabili e alternative di cui soltanto una – sebbene nella complessità d’ogni possibile contesto – prevale sulle altre. Le bombe, dunque, parlano. Un dialogo che passa per il sangue di vittime innocenti per far intendere qualcosa a qualcun altro. Un dialogo tra “innominabili” di cui uomini e donne “comuni” sono soltanto “pretesto”. E per questo doppiamente vittime. Muoiono e non sanno la verità. O almeno, non fino in fondo. Fino ad afferrarne le radici reali, derubricate infine a dietrologia. Doppiamente vittime per una verità da ricercare su un doppio livello. Sotterraneo, dove si definisce e consuma la vicenda italiana. In superficie, dove la vicenda assume i toni di “una guerra civile a bassa intensità”. Italiani che ammazzano altri italiani. Un dialogo che si è avvalso di due precisi paradigmi linguistici, necessari – fra l’altro – per dare una spiegazione a chi resta in vita e vede morire gli altri: la “strategia della tensione” e le cosiddette “stragi di mafia”. Entrambi accomunati appunto dalla “solita” bomba. Un “Reichstag” chiamato a bruciare quando serve, quand’è necessario che bruci ponendoci di fronte a una delle nostre più ataviche paure: il “fuoco”, di cui la bomba è diventata sintesi moderna. Innescata da unico timer: il particolare momento storico che si attraversa e la necessità di strutturarlo in un determinato modo, mettendolo su determinati binari piuttosto che altri.

Se le bombe parlano, cosa ci dicono? Cosa dicono agli italiani?

Innanzitutto raccontano la storia della nostra penisola, che è anche storia di stragi come in nessun altro Paese europeo ed extraeuropeo è mai accaduto.Dopodiché esplodono sempre in coincidenza con periodi di crisi. Attenzione, però. La parola “crisi” non significa periodo buio e difficile, ma più semplicemente “trasformazione”. E spesso contiene in sé la soluzione. C’è pertanto un contesto che muta, subendo la potenzialità di molteplici variabili. Nel nostro caso un “blocco di potere” che si sfalda e deve rigenerarsi. Nel rigenerarsi si confronta e scontra cercando di ricostruire attorno a se aree di contiguità che, talvolta, si sono insinuate fin dentro le istituzioni rischiando di minarne seriamente gli assetti democratici. E ogni volta che ciò si verifica, immancabilmente il sangue riprende a scorrere. In un’Italia dove i “blocchi di potere” non durano più di vent’anni. “Blocchi di potere” che vanno ben oltre le istituzioni (e la politica) e di cui spesso le istituzioni democratiche sono e sono state anch’esse vittime. Fu così a cavallo tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, con l’ulteriore problema che il Paese, interagendo con la crisi, potesse prendere una deriva “rivoluzionaria”. Per cui si decise di mantenere la parvenza esterna di un blocco già imploso che si sarebbe definitivamente sgretolato anni dopo espandendosi prima a raggiera (dalla “spontaneità programmata” degli Anni di Piombo alle trame di cupole più o meno segrete, più o meno armate) passando poi per ulteriori “stragi di assestamento” come le scosse che seguono un terremoto. Fu così nel ’92-’93, da Capaci a Via D’Amelio fino a Firenze, Roma e Milano. Ed è fondamentale che in queste – e nelle ore che seguiranno – per Brindisi (e gli altri attentati che ci sono stati) si prenda la strada giusta. Non solo da parte delle istituzioni, ma anche dei mass media. Per non dare adito a chi ha messo le bombe di rafforzarsi nei confronti di possibili contro parti, pensando di poter trovare “sponde” all’interno degli “apparati” con l’obiettivo di costruirsi personalissime e pericolosissime “aree di contiguità”.

Le bombe tutte italiane ci parlano anche di un escalation che è diventata quasi costante antropologica dell’attentato. Si parte con qualche “fuoco” qua e là – uno di questi, fra l’altro, l’altro ieri a Viterbo e ieri a Castel Volturno – per finire con i morti e proseguire con altri morti, finché ciò che si deve compiere non s’è compiuto per i prossimi vent’anni. Nel 1993 si cominciò con Firenze e si sarebbe voluto chiudere il tutto con una strage di carabinieri nei pressi dello stadio Olimpico di Roma.

Le bombe si accompagnano inoltre – come accennato poc’anzi – ad un paradigma che, per quanto verosimile possa risultare, finisce poi con l’essere di “copertura”. Bombe senza colpevoli ma che necessitano di una spiegazione o “vulgata” che dir si voglia. Quello degli “Anni di Piombo” ormai non regge più. Non tocca più alcuna corda profonda. Valeva per chi oggi ha 30-40 anni, figli di chi ha vissuto gli anni ’70. Le gambizzazioni feriscono solo la vittima. I comunicati di rivendicazione che ne seguono sono incomprensibili pure per chi li ha scritti. La galassia anarchica un rifugio fin troppo scontato e improduttivo. Sebbene ancora frutto di furbizie d’antan. Prendersela con gli anarchici è come dire che le città della Grecia classica si trovano tutte nel sud-est euro-asiatico. Nessun professore di greco potrà mai smentire, se non rispondere allo studente che il sud-est euro-asiatico è diventato la pattumiera del mondo classico. Nessuna sigla anarchica potrebbe mai smentire, perché sono talmente tante che qualcun’altra potrebbe pur sempre confermare. Nonostante ciò, magari qualcuno potrebbe aver pensato a Brindisi per poi mettere sul piatto la “pista greca”. Tuttavia, anch’essa troppo fragile. Chi ha oggi vent’anni è invece figlio di chi ha vissuto, ed è stato culturalmente cresciuto, nell’odio e nel terrore della mafia.

Le nuove generazioni si terrorizzano scavando nelle paure dei loro padri e delle loro madri. Ecco allora che il paradigma chiamato a dare una spiegazione a quanto accaduto è quello delle “stragi mafiose” ricollegando il tutto a quanto accaduto tra il ’92 e il ‘93 che, fra l’altro e per molti aspetti, resta ancora avvolto nel mistero. E fa quasi tenerezza chi in queste ore sta giustamente invitando alla calma cercando di spiegare che probabilmente la mafia (o sacra corona unita) non centra niente a fronte di un mass-media che sembra invece non volerne sentir ragione ostinandosi come un mammut a battere la pista delle organizzazioni criminali quando quest’ultime hanno il problema di gestire ed egemonizzare il territorio, e la morte di una giovane studentessa brindisina avrebbe come effetto quello di rompere il “legame” con la popolazione.

Infine, se per terrorizzare un giovane si scava nelle corde profonde della generazione che lo ha messo al mondo,per terrorizzare padri e madri si colpiscono quanto di più caro hanno: i figli. Un linguaggio che muove i suoi primi passi negli anni ’70 per affermarsi all’inizio dei ’90. Una strage di lavoratori mobilita, quella di un “carabiniere-poliziotto” o di uno studente spezza, provocando infiniti cerchi concentrici di dolore che finiscono col paralizzarci. Perché talmente intensi che ci lasciano senza fiato. È terrore puro. Perché colpisce un intero universo che in Italia ruota attorno alla figura del “carabiniere-poliziotto” e dello studente: la fiducia nel futuro, la speranza di un posto di lavoro, la volontà di riscatto e mobilità sociale, i sacrifici di una vita, una vita migliore, anni di aspettative. In sintesi, il contenuto più intimo dell’amore paterno e materno. Un contenuto emotivo spesso associato all’elemento istituzionale. Il “carabiniere-poliziotto” non è solo figlio, ma rappresenta anche un’istituzione, la Repubblica. Uno studente simboleggia anche la scuola. Ed è nell’intercapedine contenuto emotivo-elemento istituzionale che andrebbe ricercato il messaggio che con la bomba si vuole lanciare.

Perché quindi una bomba parla? Per immobilizzare un Paese e garantire un risultato interno alla ristrutturazione di un “blocco di potere”.

  

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Scritto da Daniele Camilli il mag 20 2012. Registrato sotto Primo Piano. Puoi seguire la discussione attraverso RSS 2.0. Puoi lasciare un commento o seguire la discussione

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