Ecosin ~ Armi chimiche: un’eredità ancora pericolosa (convegno svoltosi a Roma, 21 febbraio 2012)

Legambiente e C.N.B.A.C. – Coordinamento Nazionale Bonifica Armi Chimiche presentano una giornata di studi intitolata “Armi chimiche, un’eredità ancora pericolosa: mappatura, monitoraggio e bonifica dei siti inquinati dagli ordigni della II Guerra Mondiale” presso il Senato della Repubblica Italiana.

Roma, 27/03/2012 (informazione.it – comunicati stampa) Roma, 21 febbraio 2012: Legambiente e C.N.B.A.C. – Coordinamento Nazionale Bonifica Armi Chimiche presentano una giornata di studi intitolata “Armi chimiche, un’eredità ancora pericolosa: mappatura, monitoraggio e bonifica dei siti inquinati dagli ordigni della II Guerra Mondiale” presso il Senato della Repubblica Italiana.
Interventi a cura di Alessandro Lelli (C.N.B.A.C.), Fabrizio Giometti (C.N.B.A.C.), Matteo D’Ingeo (C.N.B.A.C.), Luigi Alcaro (I.S.P.R.A.), Nunzio Capozzi (Centro Interforze N.B.C.), Antonello Massaro (Centro Interforze N.B.C.), Paolo Orabona (Assobon), Giannantonio Massarotti (esperto di bonifiche), Rossana Cintoli (A.R.P.A. Lazio), Francesco Ferrante (Partito Democratico), Roberto Della Seta (Partito Democratico), Elisabetta Zamparutti (Partito Democratico), David Favia (Italia dei Valori), Roberto Rao (Unione di Centro) e Stefano Ciafani (Legambiente).
Modera il convegno Enrico Fontana, direttore di Nuovo Paese Sera.

Lettera di Gianluca Di Feo (autore del libro “Veleni di Stato”) al C.N.B.A.C. – Coordinamento Nazionale Bonifica Armi Chimiche, in occasione del convegno “Armi chimiche, un’eredità ancora pericolosa” del 21 febbraio 2012: “Mi dispiace profondamente non essere lì per partecipare a questo momento di confronto, ma è il C.N.B.A.C., con le tutte le associazioni e grazie al rapporto con il territorio, ad avere dato forza ad un’iniziativa sorprendente… in pochi mesi, il Coordinamento è riuscito a trasformare una vicenda ignorata in un caso nazionale.
Mi accorgo dell’importanza di quanto il C.N.B.A.C. sta realizzando dal numero crescente di persone che mi contattano per avere informazioni sul tema dei depositi di armi chimiche: giornalisti, amministratori locali, ricercatori universitari, studenti. Solo nelle ultime tre settimane si sono rivolti a me un giornalista americano, un regista francese, una troupe televisiva coreana, un professore slovacco: vogliono notizie su questa eredità tossica rimasta nei nostri terreni e nei nostri mari. E arrivano a me tramite il C.N.B.A.C.: scoprono il problema grazie alla fenomenale operazione di sensibilizzazione svolta dal Coordinamento.
In un Paese narcotizzato da una decennale abitudine a rimuovere i problemi, occultandoli dietro una muraglia di chiacchiere, il C.N.B.A.C. ha aperto una crepa, offrendo informazione e chiedendo risposte: quello che è l’essenza della democrazia. E lo ha fatto in pochissimo tempo, creando una rete che sta riuscendo a tenere insieme associazioni molto diverse, per orientamento politico, storia, collocazione geografica e tradizione: un altro miracolo, che aumenta la mia ammirazione nei confronti del Coordinamento.
Ora bisogna pensare alla seconda fase. Oltre a proseguire nella sensibilizzazione, è necessario riflettere sui modi per arrivare al risultato fondamentale: localizzare gli ordigni chimici ancora presenti, stabilirne la pericolosità, procedere alla bonifica.
In tutto il resto del mondo, il dibattito è intenso. Gli Stati Uniti, pochi mesi fa, hanno festeggiato un traguardo storico: la distruzione di tutti i depositi di vecchie armi chimiche presenti sul loro territorio nazionale. Ora, negli U.S.A., si sta cominciando a porre la questione delle bombe scaricate negli oceani – com’è accaduto da noi davanti a Pesaro, ad Ischia e alle coste pugliesi – e degli impianti produttivi mai bonificati – come sul Lago di Vico, a Melegnano, a Massa e in molte altre località italiane: una commissione scientifica governativa americana ha ribadito la pericolosità di questi ordigni e ipotizzato una spesa per questo progetto pari a decine di miliardi di dollari. Ma altre nazioni in tutto il mondo si stanno impegnando per fare piazza pulita di questi micidiali residuati: dal Belgio alla Germania, dal Giappone all’Australia, dalla Danimarca all’Albania, i programmi di monitoraggio e disinnesco vanno avanti rapidamente.
E l’Italia? Finora le autorità nazionali e territoriali non sembrano aver fatto molto. L’Esercito prosegue nella distruzione delle munizioni accumulate nell’impianto di Civitavecchia, con fondi sempre più esigui, mentre la Marina ha condotto alcune campagne nelle acque pugliesi legate a progetti infrastrutturali. Ma nulla si sta facendo per definire la pericolosità dei veleni rimasti nei poli produttivi militari ed industriali, da Ronciglione a Melegnano, da Massa a Foggia, né per determinare la situazione delle discariche sottomarine di ordigni.
Burocrazie diverse si rimpallano il problema, trovando nella carenza di fondi il pretesto per non affrontare la realtà. La pericolosità degli ordigni è stata dimostrata in Puglia dallo studio dell’I.C.R.A.M. (Istituto Centrale per la Ricerca scientifica e tecnologica Applicata al Mare), l’unico mai condotto, ma le istituzioni non si muovono. Mentre in tutti i Paesi avanzati e non la bonifica dalle armi chimiche è stata considerata prioritaria nonostante la crisi economica e i budget amputati: persino l’Albania ha completato la messa in sicurezza degli stabilimenti e distrutto tutte le testate con i gas. In Italia, nonostante l’impegno del C.N.B.A.C., le istituzioni sono ancora all’anno zero: manca persino un censimento nazionale dei luoghi che sono stati legati all’attività chimica e batteriologica militare. E, di conseguenza, non c’è alcuna possibilità di capire se un terreno o un pozzo possano ancora contenere residui di iprite, arsenico o altri veleni. Volete un esempio? Grazie ad alcuni dei documenti pubblicati sul sito del Coordinamento, sto ricostruendo la storia del principale centro di stoccaggio e addestramento chimico usato dalle forze armate statunitensi in Europa meridionale: si trovava in un aeroporto della Puglia ed è stato attivo per oltre due anni dal 1944 al ’47. Su questi terreni sono state provate armi all’iprite e forse anche all’arsenico. E oggi, invece, ci sono coltivazioni intensive di ortaggi, mentre i magazzini della base sono stati trasformati in un centro di accoglienza per immigrati: tutto senza mai controllare se ci siano o meno tracce di contaminazione chimica.
Mi rendo conto che, in questi mesi, con il rigore dell’attuale governo, ottenere fondi per le bonifiche può apparire una missione ancora più ardua. Ma proprio per le sue caratteristiche tecniche, non legate direttamente ad un interesse elettorale, questo esecutivo può anche rivelarsi un interlocutore più attento per queste istanze. E forse si può osare di più e cercare altri interlocutori governativi.
Si tratta di un’idea che sottopongo alla vostra attenzione e che nasce da alcune riflessioni ancora acerbe. Il punto di partenza è stato scoprire l’interesse che il mio libro sulle armi chimiche, “Veleni di Stato”, ha riscosso sui media nipponici. Alla terza richiesta di intervista, ho chiesto spiegazioni. E i giornalisti giapponesi mi hanno spiegato che da anni il loro governo sta affrontando cause legali, concluse con la decisione di pagare risarcimenti ed attività di bonifica, per gli arsenali lasciati nei Paesi asiatici occupati durante la II Guerra Mondiale. Il governo di Tokyo ha creato un ufficio ministeriale che si occupa del problema, diventato centrale nei rapporti con la Cina, dove si stima siano rimasti tra 300.000 e 4.000.000 di ordigni chimici giapponesi: il sito web di questo ufficio governativo è illuminante in materia, offrendo informazioni tecnico-giuridiche dettagliate sulle controversie in corso.
Ricordo che i giornalisti nipponici mi ripetevano sempre una domanda: “Perché l’Italia non fa causa a Germania, Gran Bretagna e U.S.A. per le armi chimiche che hanno lasciato nei vostri mari?”. In linea di principio, l’ipotesi non è astratta: chi sporca deve pulire. Pechino è riuscita ad imporre questo principio nel confronto con il Giappone, le due Coree e le Filippine stanno andando in questa direzione. Danimarca e altri Paesi baltici – dove sono presenti discariche sottomarine di armi chimiche tedesche – hanno ottenuto a suo tempo risarcimenti globali dalla Germania per l’occupazione hitleriana.
L’Italia si trova in una situazione particolare, ma che – ripeto, sempre valutando la questione in linea di principio viste le mie limitate competenze giuridiche – offre degli spunti concreti. Nel caso di Pesaro, ad esempio, le armi furono gettate nell’Adriatico dalle truppe tedesche che nel 1944 erano una forza di occupazione, poiché quello internazionalmente riconosciuto era il governo monarchico del Sud. E quando gli Americani hanno scaricato in mare i loro arsenali si sono mossi senza concordare le loro iniziative con le autorità italiane: sono operazioni condotte dopo la fine del conflitto e prima della nascita della N.A.T.O.
Io credo che un’iniziativa legale nei confronti delle potenze che hanno creato queste discariche vada quantomeno ipotizzata. E che sia opportuno affrontare anche il tema della responsabilità legale e morale degli inquinatori. Anche perché questi Paesi – in primo luogo Germania e U.S.A. – dispongono dei mezzi e del personale che potrebbe almeno localizzare gli ordigni e monitorarne la pericolosità.
Aprire un nuovo fronte della campagna del C.N.B.A.C., ponendo il problema delle responsabilità tedesche e americane, potrebbe forse determinare un altro risultato: cogliere l’attenzione dei media stranieri e spingere quelle autorità governative ad occuparsi della battaglia. Chissà che passando da Washington e Berlino non si riesca a convincere Roma ad occuparsi del problema.
È uno spunto, che affido alla riflessione di tutti. Nella convinzione che il C.N.B.A.C. – Coordinamento Nazionale Bonifica Armi Chimiche stia facendo un’opera fantastica, grazie alla determinazione ed alla capacità di procedere uniti nella diversità (Gianluca Di Feo, 21 febbraio 2012).

Una produzione “Ecosin” a cura di Chiara Bellini, Massimo De Rocchis, Francesco Scura ed Isabella Cirillo.
“Ecosin” produce un’informazione aperta ed indipendente, imparziale e non speculativa. “Ecosin” è tutela e valorizzazione del territorio, dell’ambiente e della salute pubblica nel rispetto e nell’interesse anche economico del bene comune e delle esigenze di tutti i singoli cittadini (playlist completa: http://www.youtube.com/playlist?p=1698F11A319351A1).
Il logo “Ecosin” è di Giovanni Fallacara.

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