Alto Lazio: toh, c’è arsenico nell’acqua potabile

il legno storto
Scritto da Rosa Ursina   
lunedì 19 marzo 2012
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Immaginate di dover cucinare il minestrone senza poter riempire la pentola con acqua del rubinetto. Di dover fare il caffè dovendo necessariamente utilizzare una boccetta di San Benedetto per riempire la caldaia della moka. Di mettere a bollire una teiera colma di acqua di bottiglia. 
E via così, per la maggior parte delle applicazioni casalinghe che presuppongono l’uso del prezioso liquido.
Immaginate i costi. No, non potete barare perché l’acqua del pozzo da cui attinge la tubatura è stata dichiarata inquinata e per un’ordinanza del sindaco è espressamente vietato farne uso domestico, tranne forse per lavare casa o pulirsi. Che poi, pure lì, c’è il rischio di ingerirne un bel po’ quando ci si sciacqua i denti o si fa la doccia.
“Andremmo a prendere l’acqua alla fonte più vicina” penserete voi.
Per alcune famiglie dell’area di Tivoli, Ariccia, Lanuvio, Sutri il rifornimento può essere effettuato solo ad un paio di chilometri di distanza. Minimo. 
Ecco la storia delle concentrazioni di arsenico eccessive nell’impianto idrico di questi comuni, che si sono visti chiudere, di fatto, i rubinetti e posizionare in media cinque serbatoi a paese (siamo commossi da numeri così alti) da cui gli abitanti devono attingere.
Percentuali di arsenico che, fra l’altro, sono stabilite dall’Unione Europea e che nel corso degli anni si sono abbassate sempre di più, fino a che, ovviamente, anche l’acqua che per decine di anni è stata bevuta senza enormi conseguenze non è stata condannata al marchio d’infamia. Ma mentre le percentuali di arsenico ammesse continuavano a essere ridotte, probabilmente nella convinzione che qualcuno nelle zone colpite si stesse dando da fare, tutto è rimasto immobile in alto Lazio, di rinvio in rinvio, di giunta in giunta.
Sia ben chiaro, qui non si mette in dubbio che l’arsenico sia uno degli elementi più tossici della tavola periodica, né che lo studio condotto in Bangladesh, spunto da cui ha preso forma la normativa della UE, non avesse ragione di porre in dubbio la salubrità delle falde acquifere da cui i locali attingevano con i pozzi artesiani. Ora si nega l’efficacia di una norma stabilita in tempi meno recenti e poi via via modificata fino a raggiungere livelli impossibili da rispettare, o quasi, senza l’impianto di un sistema efficiente di filtri. Si nega soprattutto l’efficacia delle direttive d’emergenza, che ancora provocano gravi disagi a famiglie ormai a secco da mesi. Forse per anni. E’ soprattutto la risposta all’ordinanza ministeriale, che ha chiuso i rubinetti senza fornire buone alternative, ad essere oggetto di incredulità.
In tutto ciò la ASL ha dichiarato che il lavaggio dei denti e l’uso alimentare dell’acqua qualora essa non sia una componente fondamentale (come nello sciacquo delle verdure o nella cottura della pasta) sono leciti: a questo punto ci si chiede quanto sia effettivamente nociva la quantità d’arsenico nell’acquedotto.
Ché, se è per questo, pure l’acqua in bottiglia contiene cianuro e benzene. E non credo che ci si possa avvelenare qualcuno o dar fuoco a qualcosa. Ma delle due l’una: o si contesta la validità della direttiva, con dati sanitari ed epidemiologici alla mano, o si provvede per tempo a adeguarsi.
Poi, chissà, magari un giorno scopriranno che alcuni microelementi presenti nell’impianto idrico stanno provocando in noi demenza e autodistruzione, come il piombo degli acquedotti romani o degli orci per la conservazione del vino potrebbe aver causato saturnismo negli imperatori più discussi di sempre (Tiberio, Caligola, Domiziano, Commodo e Nerone, solo per citare la Top Five). Già mi immagino i membri del Codacons, da cui è partita l’iniziativa di risarcimento per tutti i vecchi fruitori degli acquedotti infami, a strofinarsi le mani e ad esultare per essere diventati i novelli Erin Brockovich.
Ma resta da chiedersi: che cosa hanno fatto fino ad oggi le amministrazioni dei Comuni colpiti dall’arsenico? Mica è una novità dell’ultima ora.

 

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