PENSIONARE L’ORDINE DEI GIORNALISTI SI PUO’ di Romano Bartoloni

Lettera aperta di un collega inquadrato nell’OdG da 50 anni 

Al Presidente dell’ODG Enzo Iacopino; Al Segretario della FNSI Franco Siddi; Al Presidente della FNSI Roberto Natale; Al Presidente dell’ODG Lazio Bruno Tucci; Al Segretario dell’ASR Paolo Butturini; Al Presidente dell’INPGI Andrea Camporese; Al Presidente della CASAGIT Daniele Cerrato; Al Presidente dei pensionati romani Pier Luigi Franz. 

            In pensione ma sempre giornalista con 50 anni inquadrati nell’Ordine (aprile 1962 prima della legge istitutiva) che ormai va stretto a chiunque nell’epoca della comunicazione digitale. Mezzo secolo l’anno prossimo per l’OdG che, persi tanti tram per riformarsi da una sopravvivenza anacronistica in Europa, è in via di declino, perdendo lungo la strada poteri, in testa il controllo disciplinare della categoria,  e pezzi, il tariffario,  a rischio i pubblicisti e prima o poi la formazione sotto l’incalzare degli ultimatum del governo Monti. Oltre le disposizioni della legge sulla manovra bis ereditati dal governo Berlusconi, i decreti “Salva Italia” e “Cresci Italia” prevedono la liberalizzazione degli ordini con la cosiddetta terzietà della deontologia e e con una loro nuova radicale regolamentazione (sostitutiva in tutto o in parte delle norme vigenti, quindi anche per il nostro ordinamento del 1963) con questo scopo: “l’accesso alla professione è libero e il suo esercizio è fondato e ordinato sull’autonomia e sull’indipendenza di giudizio, intellettuale e tecnica, del professionista”. Se anche in casa nostra arriva la terzietà del sistema disciplinare (da affidare a colleghi che nulla abbiano a che fare con i consigli degli Ordini regionali e nazionale e con a capo un garante esterno),  l’istituzione, secondo autorevoli opinioni, perderà il suo pilastro esistenziale, l’unica ragione della sua permanenza: il compito di scrivere le norme deontologiche e farle applicare.

            Senza tariffario poi, via libera alla corsa degli editori al maggior ribasso dei compensi. Se non si sperasse nell’ancora di salvezza del sindacato, continuerebbero a rimanere senza tutele (contrattuale, previdenziali, assicurative), 25 mila colleghi  tra autonomi e precari (dati istituto di ricerca LSDI) che lavorano come matti anche 12, 13 ore al giorno per qualche euro a pezzo. Ben 6 su 10 hanno un reddito lordo annuo inferiore ai 5mila euro.

            Non ha più senso un Ordine rimasto all’età del piombo e arroccato a presidio di un’identità che non è più quella di una volta. In un Paese dove ogni giorni diventa sempre più difficile sbarcare il lunario, e in un settore come il nostro attanagliato dalla disoccupazione, dagli stati di crisi e dalla precarietà del lavoro, mantenere in piedi il carrozzone dell’Ordine è un lusso che non possiamo permetterci.

            Sulla carta oggi è impossibile rinviare al mittente il tesserino marrone perché le nostre istituzioni ed organizzazioni sindacali, previdenziali e assistenziali sono statutariamente ordinecentrici. Figurarsi, però, se cancellarsi dall’albo possa significare la perdita della pensione o dei diritti contributivi acquisiti, oppure comportare la fine del rapporto con la Casagit, specie per un socio di lunga data con quota di contributo di centinaia di euro al mese.

E poi…in periodo di crisi galoppante con quale coraggio il sindacato, la FNSI e le associazioni territoriali, potrebbero sbattere la porta  in faccia a un transfuga dall’Ordine.

            Semmai sono i loro statuti che andrebbero messi al passo con i tempi e con le nuove e multiforme caratteristiche del lavoro. Sarebbe una buona occasione per rivedere le bucce ai nostri sovrabbondanti e costosi governi della categoria, eliminando sprechi di risorse e di energie.

            Oggi, l’Ordine è diventato un peso morto per addetti ai lavori senza certezze per il domani e il rifugio di una casta corporativa in difesa dei propri privilegi, come appariamo agli occhi della gente e dei governanti. E’ gestito da un pletorico governo di 150 consiglieri. Sforna ogni anno un migliaio di giovani e meno giovani tesserati di belle speranze e con scarse prospettive di lavoro. Per il futuro si vorrebbero far passare per le forche caudine del tirocinio e dell’esame di stato anche i pubblicisti che ambiscono strabicamente al tesserino pur potendo impegnarsi nel sistema della comunicazione senza palle al piede. Un esame di stato che dovrebbe coronare con un posto di lavoro al sole un lungo percorso di studi, la laurea (semmai varrà ancora!), magari in scienze della comunicazione, e di baronali scuole di giornalismo pagate a caro prezzo. E che coltiva, invece, dolorose illusioni! Degli iscritti all’Ordine solo il 19% ha conquistato un contratto di lavoro (LSDI).

            Chi si appella all’art. 21 della Costituzione per giustificare la sopravvivenza dell’Ordine, dimentica o finge di dimenticare che la Carta garantisce a tutti i cittadini la libertà di espressione. Chi invoca a pretesto l’art. 33 della Costituzione, scambia lucciole per lanterne. Il nostro vincolo costituzionale è stato da sempre una forzatura intepretativa, perché il giornalista è un professionista per modo dire: vive da sempre di occupazione subordinata anche se ora è in forte calo, non ha rapporti economici diretti con il cittadino come i medici e gli avvocati obbligati a dare garanzie, ed è insidiato dal macigno della flessibilità selvaggia dei rapporti di lavoro. Peraltro, la Carta stabilisce l’obbligatorietà dell’esame di Stato per l’abilitazione professionale, e nient’altro.

            Nell’epoca della dittatura delle immagini e della comunicazione digitale sopra e sotto le righe, dove tutto viene portato da tutti nella pubblica piazza (blog e citizen journalist), non sarà certo l’Ordine, anche se dovessero venire i marziani a riformarlo, a tutelare la professionalità del giornalista, a promuovere l’accesso senza assalti alla diligenza, a garantire il diritto/dovere di cronaca, a salvaguardare la qualità dell’informazione, a combattere contro le leggi liberticide, a salvare la categoria dalle decimazioni, a scongiurare la sconfitta del giornalismo libero ed indipendente. Infine, al capolinea di una caduta sempre più in basso e di un ennesimo debole tentativo di dire la sua su cambiamenti di rotta imposti dall’alto -l’ultima parola, il prossimo 13 agosto, ormai spetta al ministero della Giustizia-, rinuncia persino a un atto di giustizia a favore dei cronisti -l’assicurazione obbligatoria prevista per tutti i professionisti- contro i rischi della libertà e della vita (querele milionarie, minacce, violenze e attentati da parte della criminalità organizzata), perché non sarebbe “conforme alla specificità della professione giornalistica”.

            Solo il sindacato, se recupererà forza contrattuale e restituirà credibilità al giornalismo scrollandosi di dosso le pregiudiziali corporative alimentate da un OdG autoreferenziale e impotente, può costituire un argine all’attacco a fondo lanciato dai padroni del vapore con l’omertà delle caste politiche-economiche-finanziarie, che aspirano a un mondo di popolo bue senza i rompiscatole dei giornalisti. Perché ha i numeri per guardare avanti e alle nuove forme di giornalismo senza rimanere inchiodato al passato.

            Prenda esempio dall’INPGI. Quando ha scoperto dagli attuari che il futuro, anche se lontano, non sarebbe stato roseo, ha fatto una radicale metamorfosi mentre il resto del mondo previdenziale italiano si piangeva addosso. Ha cambiato progressivamente il sistema pensionistico dei giornalisti da retributivo a contributivo, si è sdoppiato creando l’INPGI2 per i lavoratori autonomi. Intanto, grazie alla lungimiranza del sindacato, si è realizzato l’obiettivo, vanamente perseguito dai governi per gli italiani, di un fondo previdenziale integrativo.

            Quale lezione ricavare dall’INPGI con il governo Monti partito a testa bassa contro tutte le professioni e le loro organizzazioni senza fare distinzioni tra più o meno buoni e più o meno cattivi? L’Ordine potrebbe prendere in contropiede il pollice verso di palazzo Chigi prima della fatidica data di agosto, e farci fare un figurone a tutti noi. Presentare la proposta coraggiosa di sciogliersi e di restituire gli albi alla casa madre, il sindacato che un tempo li gestiva in proprio. Il quale oggi avrebbe maggiori chance di salvarci dal tetto che crolla, perché ha un rapporto diretto contrattuale con le controparti editoriali, perché quando scende in piazza mobilita l’opinione pubblica e le leggi liberticide tornano nei cassetti.

            Agli albori del giornalismo associativo (1877) non esistevano né albi nè Ordine nato soltanto nel 1963, ereditando la tenuta degli elenchi da un provvisorio comitato unico gestito presso il ministero della Giustizia. Escluso il peso dei capestri imposti da Mussolini, la formula e i meccanismi amministrativi/organizzativi, adottati 49 anni fa, sono retaggio dell’impianto costruito in epoca di totale controllo censorio sull’informazione (decreto regio del 1925 meglio definito con altro decreto del 1928), affidando al sindacato fascista dei giornalisti la tenuta dell’albo con tre elenchi invece dei due di oggi, professionisti, praticanti e pubblicisti. L’albo nacque con evidenti scopi di schedare i giornalisti per intimidire ed espellere dal giro i non allineati. Chi non si iscriveva, bussava invano alle porte dei giornali.

            La selezione per l’accesso era decisa da un comitato regionale di cinque giornalisti in camicia nera nominato dal ministero di Giustizia (fonti “Un secolo di giornalismo” diGiancarlo Tartaglia). Per meglio inquadrarlo nel sistema corporativo – le corporazioni professionali costituite del 1926 -, anche la figura di giornalista entrò nel consesso dei professionisti.

            Chi ancora crede nel carisma di un Ordine anche se ridimensionato dal governo e rimane attaccato a un albo strapopolato da 110 mila tesserati (!), in maggioranza senza arte né parte, protesta che gli associati al sindacato siano in numero nettamente inferiore agli iscritti all’albo (è vero solo per i pubblicisti!). Diversamente dall’epoca fascista, nessuno potrà mai obbligare un giornalista a sindacalizzarsi, però valuterebbe meglio le ragioni dell’adesione non avendo i legami di appartenenza di una volta.

            Peraltro, si conserverebbero con il sindacato i bastioni deontologici e le sanzioni disciplinari già oggi in vigore, si offrirebbe una stanza di compensazione che tuteli meglio i free-lance e che assicuri l’equo compenso altrimenti alla mercé del mercato del lavoro con o senza l’abolizione del tariffario, si veglierebbe più correttamente sull’accesso con la carta delle relazioni industriali. Senza dimenticare che la FNSI, con preveggenza, si è riorganizzata nei suoi quadri, disegnando la figura del giornalista professionale (comprensiva anche dei pubblicisti impegnati a tempo pieno nei mass-media) e quella dei collaboratori.

            E, infine, con il clima di dagli all’untore, il giornalismo si svestirebbe per tempo e definitivamente dei logori panni corporativi, spunterebbe le armi punitive del governo, riscatterebbe la propria fisionomia compromessa dal fai da te della comunicazione, e riconquisterebbe le simpatie perdute con maggiori possibilità di successo.

Romano Bartoloni

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