Quelle armi chimiche dimenticate tra terra e mare

Ordigni nascosti da decenni dalle acque dei nostri mari, laboratori e depositi di armi chimiche celati dai boschi del centro Italia: è la mappa dei veleni provenienti dal passato bellico del nostro paese. Sostanze pericolosissime che, seppur vecchie di anni, non hanno mai smesso di nuocere.

 
Quelle armi chimiche dimenticate tra terra e mare.
 

Il fatto che provengano direttamente dal nostro passato, da quell’oscura epoca che faceva delle aggressioni agli altri un vanto per cui gonfiare il petto ed inorgoglire, non le rende meno pericolose: quelle sostanze chimiche, a distanza di anni, continuano la loro opera causando inquinamento ambientale e malanni, anche gravi, in chi incappa accidentalmente in esse, restando intossicato. Sono l’eredità dei nostri trascorsi bellici: niente di paragonabile alla singola bomba che, di tanto in tanto, compare sulle pagine dei giornali, casualmente ritrovata inesplosa, magari nei pressi di centri abitati. In questo caso si parla di armi chimiche e in termini numerici ben più alti che disegnano un’intera mappa dei veleni d’Italia, accuratamente nascosti dalle acque dei nostri mari, dalla fitta vegetazione e, in ogni caso, dal tempo che è trascorso. Eppure ancora una minaccia per l’ecosistema e per la salute di tutti i cittadini, un cattivo passato sempre pronto a tornare sotto forma di ipoteche sul futuro, in numerosi territori del paese distribuiti da Nord a Sud.

Adriatico meridionale, per decenni una discarica di ordigni – Sui fondali del basso Adriatico, al largo o in prossimità delle coste pugliesi, oltre trentamila ordigni inabissati sono una silenziosa minaccia: per gli abitanti del mare, per la vegetazione degli abissi, per i pescatori, involontari «bonificatori» di quelle acque da cui, non di rado, tirano su residuati bellici i cui agenti chimici ancora fortemente aggressivi costringono loro a rivolgersi alle strutture ospedaliere per le cure. I lavori di bonifica, quelli veri, per tutta l’area sono un miraggio sempre visto e mai concretizzatosi. Circa diecimila bombe dominano nel porto di Molfetta e di fronte Torre Gavetone, poco più a Nord di Bari; ma a questo arsenale chimico, risalente agli anni della II guerra mondiale e a quelli immediatamente successivi, si sono aggiunti circa ventimila ordigni di piccole dimensioni sganciati dalle aerei NATO nel corso della guerra del Kosovo, nel 1999, contenenti arsenico, iprite, lewsite.

 

Pesaro, le armi chimiche del 1944 – Quando nel 1943 con l’armistizio dell’8 settembre mutò repentinamente la geografia della II guerra mondiale, per i tedeschi scattò una vera e propria «caccia al gas»: da Berlino giunse l’ordine di appropriarsi di tutti i siti di produzione e stoccaggio onde evitare che questi cadessero nelle mani delle truppe angloamericane. L’arsenale chimico di Urbino venne così preso d’assalto, svuotato ed il suo contenuto trasferito su alcuni convogli a Pesaro e a Fano; ma i rischi legati ad eventuali esplosioni e all’avanzata dei nemici erano troppi e avrebbero comportato l’isolamento dell’essenziale arteria ferroviaria adriatica. Si cambiarono, dunque, i piani e si stabilì di far rientrare a Pesaro i tre vagoni, di farli svuotare da addetti speciali e di riversare le 84 tonnellate di testate all’arsenico nel mare antistante la città marchigiana; lì giacciono ancora, assieme alle 1316 tonnellate di bombe all’iprite, gettate qualche settimana dopo, nell’agosto del 1944, dalla medesima unità di comando tedesca.

Napoli, i segreti dei documenti militari – Una quantità di materiale imprecisata ed imprecisabile, accuratamente occultata nei rapporti Brankowitz, redazione di appunti sulle «operazioni di trasferimento e smaltimento in mare di arsenali chimici effettuati dalle forze armate americane» a partire da una località dal nome approssimativo, “Auera” (e identificabile con la città dell’entroterra campano Aversa, dove c’era una base militare americana) e diretti, tramite Bagnoli (ancora sede di una base NATO) nelle acque del Golfo di Napoli e nei dintorni dell’Isola di Ischia. Con l’intento di dare inizio ad una stagione di trasparenza complessiva, la Presidenza Clinton scelse di rendere pubblici quegli atti militari; decisione revocata dal successore George W. Bush, in seguito agli attentati dell’11 settembre. Si tratta di un «sommario storico sul movimento delle armi chimiche» in cui le annotazioni geografiche sono poco precise, e non consentono un’immediata identificazione delle aree di abbandono dei veleni. Nei documenti si legge con chiarezza che le acque di Napoli e della meravigliosa isola di Ischia sono state per decenni le discariche degli arsenali militari americani; ed è altamente probabile che la rotta dei veleni non interessi solo Procida, Ischia e il golfo antistante Bagnoli, ma anche l’isola di Capri. Nel rapporto redatto da Legambiente e dal Coordinamento nazionale Bonifica armi chimiche si legge, a titolo di esempio, che:

Dal primo al 23 aprile 1946 una quantità non specificata di bombe al fosgene è partita da “Auera” con destinazione “il mare”: è stata, quindi, presumibilmente affondata al largo della costa campana (…) Tra il 21 ottobre ed il 5 novembre, e tra il primo ed il 15 dicembre 1945, nel “Mar Mediterraneo, isola d’Ischia”, sono state affondate quantità non specificate di bombe contenenti fosgene, cloruro di cianuro e cianuro idrato (…) In un altro documento del 29 marzo 2001, viene confermata l’operazione di smaltimento di cui si è appena detto. Anche in questo caso località esatta e quantità precise non vengono riportate. Stavolta, però, si parla di “discarica chimica di Ischia” (quindi un luogo consueto per queste operazioni). Parlando sempre di “discarica chimica di Ischia” viene confermata anche l’operazione di inabissamento svoltasi tra il primo ed il 23 aprile 1946, e si aggiunge che è stata rilasciata in mare una quantità imprecisata di bombe all’iprite ed alla lewisite provenienti dalla solita “Auera”. Il Golfo di Napoli, in quel periodo, viene utilizzato normalmente come discarica chimica. In data imprecisata, si legge ancora nel rapporto del 2001, 13mila proiettili di mortaio carichi di iprite e 438 barili, sempre di iprite, vengono affondati “nell’area di Napoli”.

La Chemical City voluta da Mussolini – Celato dalla fitta selva di boschi della Tuscia e sulle sponde del lago Vico, in provincia di Viterbo: lì Mussolini aveva deciso di costruire negli anni ’30 l’ennesimo monumento alla bestialità della guerra. Venti ettari occupati dalla Città della Chimica, centro di produzione segreto di armi chimiche con tanto di bunker per gli esperimenti, depositi per lo stoccaggio delle testate, uffici, alloggi per il personale tecnico e scientifico, caserme. Con la fine del fascismo, questo colosso smise di produrre e custodire fosfogene, iprite e gas asfissianti ma, fino agli anni ’70, continuò a fabbricare fumogeni utilizzati dalle forze dell’ordine per sedare le rivolte di piazza. Soltanto nel 1996, ed accidentalmente, i misteri che avvolgevano quella oscura cattedrale dell’orrore tra i boschi vennero svelati: quando furono scoperte sessanta cisterne della dimensione di quattro metri ciascuna contenenti fosfogene e iniziò il trasferimento delle sostanze, effettuato rigorosamente sotto silenzio. Ma le operazioni di bonifica non andarono perfettamente: una nube di fosfogene, sprigionatasi per sbaglio, intossicò un ciclista di passaggio e, da quel momento in poi, gli abitanti e gli enti dell’area conobbero la reale dimensione del problema. Una bonifica voluta e completata nel 2000 non ha risolto la questione; nel 2009, il fiorire di un’alga tossica nel lago portò ad ulteriori indagini sul territorio che è risultato essere ancora fortemente alterato, con livelli di arsenico nei campioni prelevati «superiori alla Concentrazione Soglia di Contaminazione». Al contempo i residuati bellici, tra cui armi chimiche al fosfogene, sono ancora interrati in alcune parti dell’enorme struttura.

Colleferro, cento anni di industria bellica – Era il 1912 quando si stabilì di far nascere nella Valle del Sacco, a Colleferro, in provincia di Roma, l’industria che avrebbe fornito tecnologie e «sostanze di supporto» agli armamenti, in pratica quelle in grado di trasformare gli ordigni in armi chimiche: l’Italia aspirava a diventare, un po’ in ritardo, una potenza coloniale al pari degli altri paesi europei. Ma il trascorrere del tempo e il declino di patetiche e meschine mire espansionistiche non hanno rallentato la produzione: basti pensare che alcuni documenti redatti dalla commissione ispettiva ONU incaricata di monitorare le capacità belliche e gli armamenti dell’Iraq negli anni ’80 attestano una collaborazione tra le aziende italiane (di cui però non si fa una esplicita menzione) e il paese di Saddam Hussein, alle prese, al tempo, con la sua «corsa al riarmo». Come nel caso dei veleni nel Golfo di Napoli, il segreto militare copre col silenzio autorizzato dettagli e caratteristiche di una «contaminazione molto complessa che deriva da tantissime attività che si sono succedute negli anni in tutta la Valle del Sacco» sulla quale solo recentemente si sta puntando l’attenzione.

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